A Filmmaker 2016, Valeria Bruni Tedeschi e Yann Coridian hanno presentato Une jeune fille de 90 ans, il documentario incentrato su un incontro davvero speciale, che ha del «miracoloso»: quello tra la “jeune fille” del titolo, al secolo Blanche Moreau, e il coreografo Thierry Thieû Niang che conduce un laboratorio di danza con pazienti malati di Alzheimer presso il reparto geriatrico dell’ospedale Charles Foix d’Ivry-sur-Seine, non lontano da Parigi. I due registi hanno documentato i sei giorni di lavoro con i pazienti scoprendo una vera e propria trasformazione nelle persone coinvolte. Un lavoro prezioso che, senza falsa retorica, affronta la malattia e la solitudine degli anziani con sensibilità e pudore. Dopo l’anteprima a Filmmaker, il film sarà in cartellone allo Spazio Oberdan di Milano dal 25 dicembre all’8 gennaio. Alla fine della proiezione i due registi hanno incontrato il pubblico.
L’arte di sopravvivere
Valeria Bruni Tedeschi (VBT): Non credo al fatto che il film sia una terapia e nemmeno lo è il lavoro che fa Thierry con i pazienti. Semmai quello che lui fa intensifica la vita, senza l’arte moriremmo, quindi è qualcosa che ci aiuta a sopravvivere. Questo vale per tutti. C’è una differenza tra il lavoro dei tearpeuti e quello degli artisti, non sono interscambiabili. Thierry lavora con questi anziani esattamente come lavora con i suoi ballerini o come lavora con i bambini. Proprio in questo periodo è in tournée in Francia con uno spettacolo interpretato da bambini e adolescenti ed è sempre una questione di scambio: loro lo aiutano ad approfondire la sua arte. Come in questo caso.
Il miracolo
VBT: Quando mi sono resa conto che Blanche si stava innamorando di Thierry, è stato come assistere con i miei occhi a un miracolo. Se non fosse successo, il film sarebbe stato una cronaca di un laboratorio un po’ particolare, ma l’innamoramento è avvenuto e ha cambiato completamente le carte in tavola
La questione morale
Yann Coridian (YC): Ci siamo posti la questione di come porci di fronte alla dichiarazione d’amore. Fino a quando Blanche non ha detto “Ti amo”, io non mi ero accorto di nulla. Ma a quel punto ci siamo chiesti e abbiamo discusso su quale fosse la giusta posizione da tenere rispetto al miracolo che stava avvenendo sotto i nostri occhi.
VBT: Ci siamo anche chiesti in che momento bisognasse smettere di filmare. Devo, però, dire che siamo stati circondati da un’équipe medica straordinaria con cui ogni giorno ci confrontavamo, raccontando loro quello che succedeva nei minimi particolari. Ci confortava sapere che il laboratorio di Thierry stava infondendo vita negli anziani e come si sa, nella vita c’è anche la sofferenza. Comunque è normale che ci fosse questa specie di lotta “morale” perché è una questione intrinseca al documentario, è un conflitto creativo giusto.
Le riprese
YC: All’inizio ci eravamo detti di non entrare nelle immagini, poi invece, mentre giravamo, abbiamo capito che potevamo farlo e che poi avremmo deciso in fase di montaggio che cosa tenere.
VBT: A un certo punto eravamo in quattro (Yann e Hélène Louvart che facevano le riprese, Thierry e io) e ce ne siamo fregati se in campo si vedevano le videocamere o noi stessi. Ci siamo rilassati e non abbiamo finto di non essere lì. Anzi, se sentivo che qualcuno aveva voglia di parlare, mi avvicinavo e ponevo delle domande. In tutto le riprese sono durate sei giorni e anche in questo caso è stata come una danza: c’erano momenti in cui le persone erano separate, altri in cui erano insieme e altri in cui si creava un campo-controcampo naturale.
YC: Trattandosi di persone anziane il tempo per le riprese era limitato, giravamo tra le 10 del mattino e le 15.30.
Thierry Thieû Niang
VBT È un coreografo molto celebre che ho conosciuto grazie a Patrice Chéreau, quando ho fatto Rêve d’automne. Quando Arte mi ha dato una “carte blanche” ho pensato che avrei voluto fare qualcosa su di lui e lui mi ha parlato di questo atelier che avrebbe realizzato con i malati di Alzheimer.
Attori con tempi perfetti
YC: I malati non si ricordavano di noi da un giorno all’altro, eravamo circondati dal personale sanitario e per loro era una giornata assolutamente normale. Dal punto di vista personale, lavorare con persone la cui coscienza è estremamente limitata mi ha permesso di riflettere, tra le altre cose, sulla questione della grande malattia.
VBT: In fondo il loro inconscio sapeva che li stavamo filmando e sono convinta, ma non è facile spiegarlo, che il cinema ha creato la possibilità dell’innamoramento, se non li avessimo ripresi forse non sarebbe successo. Perché in qualche maniera il cinema alza la libidine. Quando abbiamo fatto vedere il film ai nostri protagonisti, sono stati loro i nostri primi spettatori, alcuni hanno guardato senza saper cosa stavano vedendo, altri si sono riconosciuti. Quando, per esempio, ho chiesto a Gisèle: “Allora, le è piaciuto il film?”, mi ha risposto: “Quale film?”. Sembrava di sentire qualche critico…