Sul finire degli anni Zero, tra conferenze internazionali e memorandum online convogliati in un saggio pubblicato per Einaudi (New Italian Epic. Letteratura, sguardi obliqui, ritorni al futuro), la scena critico-letteraria italiana si anima attorno al concetto di New Italian Epic. La formula viene proposta dallo scrittore e intellettuale Wu Ming 1, esponente del collettivo Wu Ming cui si deve il capolavoro Q e diversa altra, magnifica, letteratura, e ha come scopo quello d’identificare i tratti di una certa tendenza comune a opere italiane, per lo più romanzi ma anche saggistica e forme ibride, pubblicate dalla fine della Prima Repubblica (1993) alla seconda metà degli anni Zero. Tra i nomi evocati troviamo Giancarlo De Cataldo, Carlo Lucarelli, Massimo Carlotto, Valerio Evangelisti, Giuseppe Genna, Andrea Camilleri, ciascuno dei quali partecipa con uno o più libri a una nebulosa le cui caratteristiche ritornano, a distanza di quasi vent’anni, in M – Il figlio del secolo, che della NIP appare esponente tardivo eppure lucidissimo, serialità incandescente in grado di insinuarsi in forma popolare tra la Storia e il suo eterno ritorno. Secondo Wu Ming 1, la conditio sine qua non di un’opera NIP è il superamento dell’ironia fredda e citazionista tipica del postmodernismo in fase terminale. «In queste narrazioni», riporta il memorandum, «c’è un calore, o comunque una presa di posizione e assunzione di responsabilità, che le traghetta oltre la playfulness obbligatoria del passato recente, oltre la strizzata d’occhio compulsiva, oltre la rivendicazione del “non prendersi sul serio” come unica linea di condotta».
Un lavoro NIP può certamente apparire ironico, divertente, non necessariamente serioso, ma si tratterà sempre di un divertimento che confida nella capacità della parola (o dell’immagine, nel nostro caso) di dire qualcosa di vero sul mondo. Secondo punto è il ricorso frequente a «punti di vista inattesi e inconsueti, compresi quelli di animali, oggetti, luoghi e addirittura flussi immateriali», una scelta atta a decentrare, complicare, inspessire di consapevolezza il rapporto tra il racconto e il lettore/spettatore. Un’opera NIP è quindi in grado di coniugare un grande successo popolare alla complessità delle sue strutture, delle sue scelte narrative e linguistiche, facendo sì che il tessuto connettivo della sperimentazione, dell’elaborazione artistica complessa, lavori sottopelle rispetto alla fruibilità pop della sua apparenza. Ne deriva un ricorso dominante al genere, le cui potenzialità rinverdiscono vicende e personaggi avventurosi tratti spesso dalla cronaca, dalla Storia pubblica e privata, dalle forme mitiche che investono, tanto in positivo quanto in negativo, il piano nazionale e internazionale. Tale approccio chiama in causa l’uso dell’aggettivo epico, termine ambivalente che riconduce nel territorio NIP tanto la dimensione strettamente di genere quanto l’accezione teatrale messa a fuoco da Bertold Brecht, per il quale epico è quel teatro di inizio Novecento il cui obiettivo non è più l’immedesimazione dello spettatore nella storia e nei personaggi ma il mantenimento di un suo distacco, di una sua distanza critica dalla rappresentazione, permessa dalla percezione dell’artificio, della mediazione. L’insieme di queste e altre strategie fa quindi sì che buona parte della nebulosa NIP sia composta da opere impegnate nell’intento allegorico di ancorare al presente la propria connotazione storico-avventurosa, così da proiettare sul contemporaneo un determinato punto di vista politico e/o socioculturale. Altri ancora sono gli elementi distintivi della NIP, ma già questi offrono materiale a sufficienza per porre a dialogo le forme del New Italian Epic con l’adattamento del primo libro della saga di Antonio Scurati. È infatti proprio sulla gestione attentamente dosata dell’ironia, sulla scomodità del punto di vista adottato, sulla costruzione straniata del personaggio, sulla spettacolarizzazione pop di forme cinematografiche appartenenti alla storia del cinema muto e delle sue avanguardie, che M costruisce la propria identità narrativa e stilistica, smaccatamente allegorica riguardo il ritorno delle destre neoconservatrici e antidemocratiche all’interno del panorama politico e culturale dell’Occidente contemporaneo.
Abilmente prodotta da Lorenzo Mieli tramite The Apartment, M è anzitutto l’ennesima dimostrazione di quanto Sky Italia sia importante per la ridefinizione delle forme seriali nostrane. Da We Are Who We Are a Dostoevskij, passando per The New Pope, Anna, Romulus, ZeroZeroZero e Hanno ucciso l’Uomo Ragno – La leggendaria storia degli 883, limitandosi ad alcuni titoli di punta usciti a partire dal 2020, la localizzazione italiana di Sky ha dimostrato di voler e saper coniugare sguardo autoriale e narrazione di genere, prestige television e successo popolare, secondo una progettualità seriale che Netflix Italia ha clamorosamente mancato mentre Prime Video e Disney+ stanno appena iniziando a mettere in campo. In attento equilibrio tra locale e globale, tra esercizio di divismo attoriale/registico ed esibizione di magniloquenza produttiva, M non solo si colloca con coerenza nel solco tracciato ma ne gonfia tratti e ambizioni. Tutto, nella miniserie diretta da Joe Wright, manifesta gigantismo e ipertrofia, tutto è in espansione, invadenza, invasione dell’occhio e dello spazio, un senso barocco di scena teatrale artificiosa, fatta di quinte e sipari e palchi, soprattutto palchi, secondo una strategia già sperimentata da Wright nel magnifico Anna Karenina e qui dilatata per raccontare la tracotanza e il doppiogiochismo del potere, la costruzione artificiosa della retorica e del non-pensiero, l’assenza di morale e di ogni senso della democrazia. Ne deriva un tour de force stilistico che mescola elettronica e futurismo, rave culture e avanguardia, pulp e documento, un conflitto costante tra forme presenti e passate che assalta la Storia e le sue tracce mediali, l’archivio, cannibalizzandone strategie e soluzioni compositive tra innesti reali e reenactment stilistici. E al centro lui, il corpo di lui, il peso della carne aumentata di Luca Marinelli, la posa scimmiesca, le smorfie e gli occhi spalancati, il talento mesmerizzante del prestigiatore, la consapevolezza, ferrea, che tutto nel mondo si riduca a un palco.
La gestione di Benito Amilcare Andrea Mussolini, la creazione di un personaggio che fosse il male senza esserne spauracchio, protagonista senza diventare antieroe, seduttore ma dal fascino smussato, velato e compromesso dal giudizio storico, è dove M, al netto di tutti i suoi meriti registici e produttivi, non poteva fallire. E non fallisce, grazie anzitutto alle intuizioni di sceneggiatura poste da Stefano Bises e Davide Serino, autori dell’adattamento e del suo “tradimento”, che traduce la seriosa documentazione di Scurati nei toni della commedia all’italiana virata in forma epica, straniata. Sulla scia del Frank Underwood di House of Cards, anche qui lo sguardo in macchina e la rottura della quarta parete diventano lo strumento tramite cui raccontare i doppi e tripli livelli dell’esercizio del potere, ma rispetto al personaggio interpretato da Kevin Spacey, Marinelli non è mai Mussolini, non lo diventa, non può e non deve, perché – fedelmente all’idea epica di Brecht – solo il non riconoscersi nel personaggio, il mostrare tutta la mediazione, il trucco, il mestiere necessario a metterlo in scena, permette alla serie e allo spettatore di assumere un atteggiamento critico a riguardo. È soprattutto grazie a questo escamotage – certamente rischioso e a volte giocato sul filo dell’autoreferenziale – che M riesce a raggiungere quello che è il suo obiettivo più bello e importante: mostrare come la Storia a volte non tenga separate farsa e tragedia (come vuole il celebre detto di Marx) ma unisca i due poli nel suo ripetersi, affinché l’uno non disinneschi l’altro e anzi lo aiuti a nascondersi, mimetizzarsi. Al netto di ogni strategia stilistica, è questa necessità di tornare alla Storia che ci permette di leggere M come un’espressione di New Italian Epic, con le cui opere la miniserie Sky ha in comune l’intento di affrontare la difficoltà, tutta contemporanea, a comprenderla la Storia, a riconoscerne i tratti ricorsivi e gli incubi ritornanti. È la stessa crisi percettiva che anima, mutatis mutandis, il Megalopolis di Coppola, la cui Nuova Roma è a rischio distruzione per via di un satellite denominato Cartagine appartenente al vecchio regime sovietico. Attorno a noi la Storia è di nuovo e ampiamente in movimento, possiamo riconoscerlo o restare ancora una volta in attonito, inabile «silenzio».