Macerie e futuro: Black Dog di Guan Hu

Nella linea visiva di Black Dog c’è una orizzontalità vagamente astratta, che ha un suo fascino un po’ abbacinante e un po’ stralunato: tanta luce, ampi spazi, un dialogo costante tra dispersione e insediamento, vuoto e figure, su cui il regista Guan Hu lavora con piglio impercettibilmente fantastico, omaggiando tra le righe Jia Zhangke, cui tra l’altro chiede di interpretare uno dei capi del villaggio. Miglior film del Certain Regard di Cannes 2024, Black Dog sta ai margini del Deserto del Gobi, laddove la Cina scolora nella Mongolia: lontane province della modernizzazione a marcia forzata, in un villaggio che è uno spazio liminare tra quel che resta di una dimensione rurale non ancora dimenticata e la frenesia di un futuro che arriva da lontano e parla di fabbriche da innalzare e nuova economia da impiantare sulle macerie di case e vite ferme nel tempo. L’incipit è un dialogo incongruo tra la dimensione selvatica dello spazio e l’inclusione della figura umana: una miriade di cani randagi corre nella pianura e taglia la strada a un autobus, che sbanda e si ribalta. Dalle lamiere emerge una varia umanità di provincia, qualcuno cerca dei soldi che gli sono stati rubati e la polizia ferma Lang, che non c’entra nulla ma, visto che sta tornando a casa dopo aver trascorso alcuni anni in prigione, è il perfetto sospettato.

Nessuna conseguenza per lui, ma Guan Hu ha già disposto sulla scena gli elementi del suo film e lascia che il suo protagonista sia il perno su cui farli ruotare. Il suo ostinato silenzio e la traccia di una rassegnazione che fa di lui un reduce dalla sconfitta: tutti lo ricordano come un musicista di successo e un motociclista spericolato, lui non parla più e subisce passivamente le angherie del padre di quel suo amico morto per un incidente con la moto, di cui lo ritiene responsabile (e per cui ha scontato gli anni di galera). Il villaggio è tutto un contrappunto di funzionari che organizzano il futuro e dispongono il territorio al cambiamento (edifici da abbattere, fabbriche da costruire) e una popolazione divisa tra anziani spiazzati che traccheggiano nel passato e giovani spaesati che cercano di adattarsi a un nuovo ritmo che il loro spirito non conosce. Il vecchio padre di Lang, malato e stanco, vive una sua latitanza fuori dal villaggio, custodendo gli animali di quello zoo ormai chiuso che sta per essere smantellato, occupandosi soprattutto di una vecchia e stanca tigre. Lang invece è costretto a lavorare con la squadra di accalappiacani che ha il compito di fare piazza pulita dei randagi che scorrazzano nel villaggio, ma intanto si lega a un cane nero dallo spirito ribelle su cui pende addirittura una taglia, che morde (anche lui) e fugge e si nasconde tra le macerie di un vecchio palazzo.

Con la loro residuale eleganza (Lang è interpretato da Eddie Peng, il “black dog” è un levriero), entrambi sono spettri fuori luogo di un mondo che Guan Hu rappresenta come uno spazio sospeso tra il non più e il non ancora, funzione desertica di un tempo che da nessuna parte come in Cina ha frullato e omogeneizzato passato e futuro. Black Dog è un film che sta tutto nella spazialità negata dei luoghi in cui si colloca, ne percepisce la liminarità e la traduce in una forma estetica e metaforica che tutto ingloba. Lang è un eroe trasparente, figura resistente e passiva dalla quale non ci si aspetta né azione né reazione, ma solo un simbolico disadattamento, un randagismo che dialoga con il versante selvatico della scena. Guan Hu – sesta generazione di cineasti cinesi, una filmografia eterogenea che con Black Dog cerca efficacemente la via di una rarefazione (autoriale) in cui trovare le coordinate simboliche dei mutamenti che intende raccontare – crea uno scenario fantasmatico e lo percorre sino in fondo. Affidandosi a una volata finale che riassume la simbologia della parabola nella narrazione musicale offerta da Hey You dei Pink Floyd.