«Quando ho letto il memoir Sono ancora qui di Marcelo Rubens Paiva (da noi pubblicato da La Nuova Frontiera ndr), sono rimasto profondamente commosso. Per la prima volta, la storia dei desaparecidos, delle persone strappate dalle loro vite per mano della dittatura brasiliana, era raccontata dalla prospettiva di coloro che restano privati di una persona cara. Nell’esperienza di una donna – Eunice Paiva, madre di cinque figli – c’era al tempo stesso la testimonianza di come sopravvivere a una perdita e l’immagine speculare di una ferita inflitta a un’intera nazione. Era anche una storia personale: conoscevo quella famiglia ed ero amico dei figli Paiva. La loro casa resta indelebilmente impressa nella mia memoria. Nei sette anni che abbiamo impiegato per realizzare Io sono ancora qui, la vita in Brasile ha compiuto una virata avvicinandosi pericolosamente a quel passato. E questo fatto ha reso più che mai urgente il racconto di quella storia». Così Walter Salles ha introdotto Io sono ancora qui all’ultimo festival di Venezia. Il film fresco vincitore di un Oscar nella categoria Miglior film internazionale è la storia vera della famiglia brasiliana Paiva formata da Rubens (Selton Mello), desaparecido, dalla moglie Eunice (Fernanda Torres), dai 5 figli. Una famiglia che vuole essere disperatamente “normale” e si rifugia nell’amore che li unisce per difendersi dalla dittatura militare al potere (1964-1985).
1971, a Rio de Janeiro, Ruben, ex deputato, viene prelevato dai paramilitari. Restano la moglie e i figli ma la loro vita precipita nell’incubo e cambia per sempre. Nel Brasile stretto nella morsa della dittatura militare anche Eunice e la figlia più grande vengono arrestate, detenute per cinque giorni e torturate. Una volta liberata la donna è costretta a provvedere alla famiglia dato che non ha più denaro perché i conti del marito sono bloccati. Così decide di ricominciare tutto da capo: si trasferiscono a San Paolo e lei torna ad insegnare (Eunice Paiva, diventata avvocato all’età di 48 anni, ha lottato per il suo popolo, anche per i diritti dei popoli indigeni contro i “ladri di terre”). Il film è una storia vera e umanissima, un lessico famigliare brasiliano: le fotografie e i super 8, la pellicola d’epoca, la musica e la routine famigliare: tutto ci riporta a una storia del 1971, ma modernissima, attualissima. Privata e collettiva…Di fronte alla speranza illusoria di una possibile esistenza a contatto con una oppressione totalitaria che rende progressivamente insopportabile la quotidianità. Una interessante frammentazione narrativa, il passaggio da un personaggio all’altro e un senso musicale del ritmo impeccabile, fanno in modo che il film sfugga alle insidie del film a tesi e si tenga lontano del sensazionalismo, riuscendo a iniettare la giusta dose di romanticismo per renderci sensibili al destino di questa famiglia. La storia poggia tutta sulle robuste spalle di Fernanda Torres, sempre in primo piano e capacissima di rendere bene l’angoscia claustrofobica e senza speranza (e senza senso) di quello che questa donna sta vivendo.