Un dolore non manifesto: A real pain di Jesse Eisenberg

Solo qualche anno fa, nel 2023, il regista israeliano Matan Yair aveva realizzato un film dal titolo, letteralmente tradotto, Una stanza tutta per sé. Il film benché imperfetto, come si diceva, non solo richiamava alla mente la sottolineatura femminista del libro di Virginia Woolf in un adattamento del tutto emblematico alla condizione del giovane protagonista, ma sottolineava la necessità di una affrancazione e di una conseguente emancipazione di un giovane ebreo dalle classiche tradizioni culturali religiose del proprio Paese. Quell’opera con gli smarrimenti del protagonista, in quella incertezza della vita che si riflette nella costruzione del film e soprattutto per quel senso di disadattamento che sembra colpire i giovani ebrei del mondo non proprio inclini a rispettare totalmente le regole, torna alla mente davanti a questa seconda prova registica di Eisenberg, dopo Quando avrai finito di salvare il mondo del 2022. È forse necessario, preliminarmente, ricordare che le origini del regista attore sono polacche e ucraine e che la sua famiglia ha chiare origini ebraiche. A real pain prova a smorzare – ma neppure più di tanto – i toni della necessità di affrancazione e per farlo Eisenberg, come aveva già fatto nel suo precedente lavoro, scrive la sceneggiatura, inventando un reale antagonista quasi da manuale. David, interpretato dallo stesso Eisenberg, e il cugino Benji (un Kieran Culkin vivace e in grande spolvero che ha vinto l’Oscar come Miglior attore non protagonista) di famiglia ebraica, guardano alla vita da posizioni esattamente opposte. Tanto riservato David, sempre a disagio e con il desiderio di passare inosservato, tanto sfrontato, a volte inopportuno e di una egocentrica teatralità Benji.

 

 
Ma i due si vogliono bene, sono anche cresciuti insieme e appartengono alla stessa cultura, benché diversamente interpretata. David però è sposato e anche se fa un lavoro di merda, come gli dice il cugino, sta bene, è soddisfatto e ama la sua famiglia. Benji è anche qui l’opposto e sembra non avere casa e non avere radici. Che sia lui l’ebreo errante? I due partecipano ad un tuor in Polonia dedicato ai luoghi della Shoa, ma per loro due sarà anche l’occasione per andare a vedere l’ultima dimora della loro nonna che, salva per miracolo dal campo di concentramento nazista, si rifugiò negli Stati Uniti dove crebbe la sua famiglia. Durante il viaggio il piccolo gruppo di partecipanti, tra cui i due protagonisti, avranno occasione di conoscersi e riflettere sui temi dello sterminio nazista. Il film di Eisenberg più che una commedia, di cui ha la confezione, è un film che diventa una pubblica confessione di una impasse che non è necessariamente del suo autore, quanto piuttosto di una specie di patologia virale che sembra colpire alcuni giovani ebrei di ogni latitudine. Quelli cioè non perfettamente allineati, non si vuole dire ad una ortodossia integralista, ma neppure ad un rispetto da religioso praticante delle regole. In altre parole quei giovani ebrei che, pur consci e rispettosi del loro passato e della loro cultura, intendono vivere al di fuori delle regole che dominano nell’ambiente e che preludono ad una rigidità oggi non più omologa ai tempi. Si direbbe che si tratti di ebrei laici che non per questo smettono di essere ebrei. David appartiene a questa categoria. Il più stralunato e apparentemente irregolare Benji sotto sotto e neppure tanto, contesta il cugino e durante il tour partecipa idealmente e manifestamente al dolore dei propri antenati rifiutando, in nome di quel dolore mai sanato, ogni agio e ogni beneficio dei nostri tempi. Il confronto con la variegata tipologia di viaggiatori (dall’ebreo convertito e diventato ortodosso alla donna che vive con leggerezza il suo ebraismo) è difficile poiché incomprensibile.

 

 
Il film di Eisenberg contribuisce dunque, per quello che può fare un film, ad aprire un dibattito attorno al tema in questi tempi così difficili in cui i termini del confronto sembrano essere altri e ben più drammatici in una evoluzione sempre rapida verso una sorta di baratro di incomprensione di linguaggi e di comportamenti. Sotto questo profilo A real pain traduce un disagio evidente, quello stesso di Uri, il ben più giovane protagonista del film citato, che, per inciso, in quel film, rinuncia ad un viaggio in Polonia alla ricerca di quelle stesse emozioni che scatena la memoria del passato condivisa benché non siano state vissute quelle tragedie. Ne deriva che in questi due film, legati da un resistente filo rosso, va ritrovata una certa verità che attraversa le storie raccontate. Ma nel film di Eisenberg – dove tutto sembra funzionare a dovere, anche se non sempre la focalizzazione del tema è perfetta, forse per il diretto e totale coinvolgimento del suo autore-attore-regista-scrittore – ad un certo punto della narrazione tutto cambia e in quel finale così’ inatteso, che sembra ribaltare ogni risultato fin lì ottenuto, i personaggi assumono un’altra fisionomia. È in quello scarto che il “sempre sopra le righe” Benji assume il ruolo di pensoso personaggio, di giovane e vero ebreo smarrito, disorientato e senza casa e senza terra, dappertutto inopportuno che ha bisogno di confondersi tra la gente per ritrovare una propria identità perduta. A real pain fa centro in questa intuizione, tutta narrativa, una condizione di dolore reale, intimo e per la prima volta non manifesto, che viene lasciata alle sole immagini, estranea ad ogni contaminazione sociale o politica, tutta dentro una riflessione naturalmente più ampia che è profondamente culturale e di appartenenza. È forse bisognerebbe cominciare da queste considerazioni per ragionare meglio sul film e sul suo peso specifico, ma Eisenberg è giovane ed è probabile che la sua elaborazione diventi più esplicita in futuro.