Venezia77 – Gianfranco Rosi: Notturno non è un film che dà delle risposte

Gianfranco Rosi ha passato tre anni sui confini tra Siria, Iraq, Kurdistan, Libano per realizzare Notturno in Concorso alla 77 Mostra del Cinema di Venezia.

 

L’inizio come metafora

La scena dei soldati è stata una delle prima che ho girato, ed è sempre stata l’inizio del film. A un certo punto la volevo togliere, per me è una scena un po’ mancata, volevo girarla in un altro modo, approfondendo l’aspetto dei soldati al mattino. Soldati di cui non vedi le divise, non capisci a quale reggimento appartengano… Poi, recentemente, pensando a quella scena ho capito che era come un sentimento, una sensazione di quel che succede in Medio Oriente: queste pause, questa distanza che si crea tra un evento e un altro, tra una battaglia e l’altra, c’è questo grido di battaglia quando loro sono vicini alla cinepresa (chiaramente lo facevano anche un po’ per darmi noia perché io filmavo da quell’angolo) e poi il suono va via, sparisce e ne arriva un altro. Io non li vedevo arrivare, però li sentivo, poi spariscono e si sente soltanto l’eco di questo urlo. È un po’ quello che succede in Medio Oriente dove c’è una guerra, poi c’è un periodo di pace, di calma, sembra che le cose ricomincino, poi c’è un nuovo allarme… Alla fine tutti questi battaglioni, questi elementi di attacco, di subbuglio si allontanano e c’è soltanto l’eco di queste urla e di questi passi e l’eco della guerra. In fondo il film ha questo ritmo, senti la guerra, il pericolo sempre in distanza e poi ti arriva all’improvviso, quando meno te l’aspetti.

 

I confini

L’idea dei confini non appartiene a quella regione, i confini sono stati tracciati dalle potenze coloniali, senza considerare le etnie, le culture, le radici di quei popoli che vivevano liberi. Di lì viene il disastro che oggi viviamo e in tutto questo le vere vittime sono le persone, che hanno pagato il prezzo di tutele politiche sbagliate, dei regimi, delle ingerenze straniere. Mi interessava raccontare le storie, i personaggi, oltre il conflitto. Sono rimasto distante dal fronte, preferendo andare dove le persone tentano di ricucire le loro esistenze. Per queste persone la guerra è una presenza opprimente, un peso che impedisce di proiettarsi nel futuro. Non c’è differenza tra una storia girata in Siria, in Libano, in Kurdistan o in Iraq… Il legame che ho cercato nel film era quello della dimensione umana, non geografica.

 

 

L’astrazione e la sottrazione

Non l’ho mai pensato come un film che potesse dare delle risposte, né mi sono posto delle domande. Quello che per me era importante era trovare quelle storie che avessero la quotidianità, all’interno di confini che sempre vacillano tra la vita e la morte, tra la vita e l’inferno, tra la vita e la distruzione. L’idea iniziale è stata quella di distruggere questi confini, di non dare una dimensione geografica al film, ma far sì che tutto diventasse un confine mentale, una separazione mentale, un luogo mentale dove tutte queste storie si potessero unire in una dimensione quasi astratta e di trasformazione della realtà. Ho lavorato moltissimo di sottrazione, mi sono accorto che dovevo andare alla sintesi delle storie, trovando questo elemento  di densità della storia, senza preoccuparmi di quello che c’era prima o dopo. In questo senso il lavoro di montaggio è stato difficilissimo perché bastava dare un’informazione in più sul personaggio che non ti volevi più staccare da lui e, quindi, non c’era più un’altra storia che poteva andare assieme. Nel montaggio la sfida grossa è stata quella di trovare il punto che se lasci la storia e ne agganci un’altra  allo spettatore non manca nulla, è come una composizione musicale dove una nota continua nella successiva e in mezzo c’è questo spazio di silenzio che in tutto il film è un momento di racconto fondamentale.

 

L’attualità

Quello spiazzamento di non sapere cosa ci aspetta nell’avvenire che abbiamo provato e stiamo ancora provando tutti noi a causa della pandemia, per la gente che vive in Medio Oriente è una condizione abituale.

 

Le riprese

Prima di girare, ho passato sei mesi cercando di creare un’intimità con quelle persone. Ogni volta che passavo da una fazione a quella opposta vedevo che si trattava di persone simili e continuavo a chiedermi, senza trovare una risposta, perché combattessero uno contro l’altro. Dico sempre che questo film inizia dove finisce il reportage, dove finiscono i titoloni dei giornali, il film vuole entrare e dare una dimensione più universale a queste storie.