Luc Besson: amo assaggiare e masticare le vite dei personaggi

Luc Besson con Dogman ritorna  in gran forma e lo fa misurandosi con la storia di Douglas (lo strepitoso Caleb Landry Jones), un ragazzo che fin da piccolo viene chiuso in un gabbia piena di cani da un padre e un fratello crudeli e violenti. Dopo aver perso l’uso delle gambe, si ritrova a vivere su una sedia a rotelle circondato dai suoi fedelissimi cani. Douglas cresce in quella gabbia, i cani aumentano e l’unica via di fuga sono delle riviste lasciategli dalla madre. Si traveste da donna, si trucca e si trasforma in una sorta di joker pazzo che si confronterà con  il teatro, William Shakespeare ma anche l’amore. E sullo sfondo rimane un passato con il quale chiudere i conti. Besson ha raccontato nella conferenza stampa del Festival di Venezia il suo rapporto con le storie, il cinema, i personaggi, la genesi della sua  favola nera…

 

 

 

Il cane come messaggero di Dio
Il film comincia con un’epigrafe di Alphonse de Lamartine: «Ovunque ci sia un infelice, Dio invia un cane». Nel mio film ce ne sono 70. Tutto è partito da un articolo di giornale, la storia di un bambino che i genitori avevano chiuso in gabbia. Ricordo che il mio primo pensiero fu: e adesso? Cosa farà nella vita? Diventerà un terrorista o Madre Teresa di Calcutta? Il fatto, poi, è che da quando avevo 16 anni io mi sveglio alle 5 mattino. Inizio subito a scrivere. Continuo farlo e mi sento libero. L’ho fatto anche stavolta, pensando a quel ragazzino. Il film parte da quella domanda: farà il terrorista o il santo? Ho cercato di immaginare una possibilità. Due mesi dopo avevo la prima stesura. Mi sono fermato. Ho aspettato, come faccio sempre. Poi l’ho riletta. Non era male. L’ho fatta leggere a Virginie, che da 10 anni è la mia compagna e produttrice. Ha detto: possiamo fare il film.

 

 

Io e Caleb
Caleb Landry Jones me lo ricordavo in diversi film.  Virginie ha approvato subito la mia scelta. L’ho cercato, gli ho chiesto se gli piacevano gli animali. Gli ho mandato la sceneggiatura. Mi ha detto sì. Siamo andati insieme in una spa: lui ha perso 20 chili, qualcuno anch’io. Poi abbiamo incontrato un medico specialista. Perché Douglas nel film viene ferito alla schiena. È differente se cammini con 7 o con 9 vertebre fratturate. Abbiamo trovato insieme il passo giusto…

 

 
Un set canino
È diverso se il mattino arrivi e sul set ci sono un centinaio di cani che ti aspettano. La prima cosa è che finisci subito nel fango con loro. Perché sei tu che devi farti conoscere. E metterti a fare le cose che fanno loro. Siamo arrivati ad avere anche 70/100 cani. Il processo di casting è stato lungo. Due, tre mesi. Perché i cani dovevano piacersi tra di loro. E così magari ne sceglievamo uno, lo mettevamo con un altro e andava bene, ma con il terzo no. E allora si ricominciava da capo. Quando abbiamo cominciato a girare avevamo 3 cani star con il loro addestratore e un camper solo per loro. Di questi 3 uno era la superstar, francese, arrivava solo per le sue scene e poi se ne andava. L’avevo chiamato Domen. Poi c’era il mio preferito: pesava 80 chili, arrivava e mi leccava tutto. Sul set avevamo 25 addestratori, perché ciascuno si occupava al massimo di 3 cani. E siccome i cani obbediscono solo a una voce, quando dicevamo azione… potete immaginare! 25 voci in contemporanea, per la scena in cui Caleb/Douglas legge Shakespeare ai suoi amici a quattro zampe.

 

 

Nessun riferimento
Se devo pensare a un riferimento cinematografico, non ne trovo. Io non sono un appassionato di cinema. Quando al primo film mi dissero che ricordavo questo e quello, dovetti noleggiare delle videocassette per sapere chi erano. L’ispirazione mi viene camminando per la strada, guardando come cammina la gente e immaginandomi le loro storie. I miei personaggi nascono così, non da film o libri. Perché quelli sono già stati digeriti da altri, io invece amo assaggiare e masticare le vite allo stato puro.

 

L’arte e l’amore
Quando ho iniziato questo lavoro qualcuno mi disse: ci vogliono 2 anni per fare un bel film, ma bastano due minuti per rovinarlo. Qui non ero sicuro del finale, ma non volevo rovinarlo. Così ho chiesto alla mia montatrice, che è con me da anni, di tornare sul set. E lei ha avuto l’idea giusta. Perché i miracoli non esistono. Esiste solo lavorare sodo, in team, riuscendo a tenere quello che funziona e tagliare il resto. Quello che ho imparato è che due sole cose ci salvano: l’amore e l’arte, certamente non i soldi. Se riesci poi ad avere amore e anche arte, allora sei davvero fortunato.