Al Festival dei Popoli la Panamericana degli Stones: un tripudio di “olé” nel viaggio attraverso l’America Latina

thumbPer cercare di catturare l’essenza della musica dei Rolling Stones si cimentò in passato addirittura Martin Scorsese. Era il 2006: teatro (anche in senso letterale) fu il Beacon di New York. Il film che ne derivò, uscito due anni dopo, nel 2008, si intitola Shine A Light ed ha il merito, tra gli altri, di trasmettere l’energia e la fisicità dei live della band, forse la cifra costante in oltre cinquant’anni di carriera, a prescindere dall’età che avanza. Eppure quel lavoro – a tratti sembra fagocitato dal carisma di Mick Jagger, eterno monello e novello Dorian Gray, almeno se guardiamo alla forma fisica e non alle rughe del suo viso – non piacque particolarmente ai “terribili vecchietti” del rock, probabilmente perché, pur essendo un monumento per immagini, non risparmiava le defaillances. Facile capire, dunque, i motivi per i quali il regista Paul Dugdale abbia scelto una prospettiva laterale nel raccontare la tournée sudamericana della band in The Rolling Stones Olé, Olé, Olé! The Trip Across Latin America. Dugdale, per la verità, è uno specialista del backstage: classe 1980, inglese, dopo una gavetta con gli spot pubblicitari, dal 2011 ha indirizzato la sua attenzione verso i tour di alcuni artisti di fama planetaria, senza particolari distinzioni tra volti nuovi e rappresentanti della vecchia guardia: Adele, Ed Sheeran, One Direction, Emeli Sandé, i Coldplay, i Prodigy, Lenny Kravitz. E i Rolling Stones, appunto, con un documentario dedicato ai concerti tenuti in Cile, Argentina, Uruguay, Brasile, Perù, Colombia, Messico, sfociati infine nella storica data cubana, decima e ultima tappa (celebrata anche con un filmato dedicato, Havana Moon, uscito a settembre).

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L’approccio del cineasta britannico è esplicito: evidenzia da un lato come la produzione sia ufficiale e riconosciuta; dall’altro, sposta l’attenzione sugli aspetti antropologici del viaggio, concentrandosi sull’accoglienza della band e sull’approfindimento dell’universo parallelo dei fans, piuttosto che procedere alla confezione di un concert-movie arricchito con le consuete (e ormai difficilmente sorprendenti) immagini dietro le quinte. Il risultato è un’opera interessante – vista al 57esimo Festival dei Popoli di Firenze – girata con stile rigoroso e montaggio spettacolare senza essere mai enfatico: pur celebrativa (caratteristica inevitabile del genere), riesce a sondare percorsi in parte poco esplorati. Ad aprirci le porte di casa Stones, e quindi avallare l’operazione per conto del gruppo, è Keith Richards, che in America Latina ha ricevuto ovunque le stesse aimagesttenzioni del frontman Jagger; è un “portiere” non solo simbolico, considerato che accoglie personalmente la troupe nella sua camera d’albergo, facendo gli onori di casa. Con questo espediente, nemmeno troppo ricercato, Dugdale crea la cornice adatta per poi spaziare con libertà nella storia di questa ennesima avventura musicale. Più che gli aneddoti su Jagger e Richards, piace la delicatezza con cui, in presenza del figlio Ty, Ron Wood – non un pivellino qualunque – confessa emozione e timori che lo assalgono alla vigilia di ogni show, in cui “l’adrenalina scorre come la prima volta”; e pure l’atteggiamento nichilista con il quale Charlie Watts prima chiarisce che “il mondo dello spettacolo è tutto una stronzata”, e poi minimizza il proprio ruolo di “drummer”, asserendo tranquillo che “la batteria è giusto uno strumento di accompagnamento, che da solo non conta nulla”. Ma è nella valorizzazione del contesto in cui gli Stones si esibiscono, che il film offre il meglio di sè, specialmente la dove approfondisce il fenomeno della tribù urbana dei “Rolingas”: fanatici argentini della band, verso cui sono debitori di un’estetica da fine anni ’60 e di una cultura alternativa che ha fatto proseliti anche nei paesi limitrofi. Un fenomeno che il ritorno della formazione dopo anni di assenza ha fatto riesplodere.

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Meno interessanti, invece, si rivelano certi passaggi da cartolina locale, latori di una realtà edulcorata e parziale. L’ampio epilogo cubano, tuttavia, recupera il valore epocale dell’avvenimento che, a sorpresa, ha portato il rock all’Avana. Fenomeno che tocca e riguarda forse più i coetanei degli Stones e le generazioni immediatamente successive di isolani caraibici, che non i giovanissimi. Questi ultimi, infatti, hanno potuto percepire ampi squarci di mondo occidentale che filtrava dalle inevitabili crepe – aperte dagli anni, dalla crisi, e dalla graduale solitudine – nel muro dell’isolamento cubano; mentre quarantenni, cinquantenni e sessantenni hanno subìto fino in fondo il fascino della novità e della storia della musica che è (finalmente) approdata nella loro terra, con il vento di libertà che (talvolta) l’accompagna. Curioso – ecco, di nuovo, un parallelo con il film di Scorsese – che sia un presidente USA a mettere il sigillo sulla “regalità” dei Rolling Stones e, in qualche modo sulla loro immortalità artistica. Se in Shine A Light era la famiglia Clinton a suggellarne lo status, con una carrellata iniziale di fotografie di gruppo con la band, qui è Barack Obama, autore della prima visita ufficiale di un capo di stato americano dai tempi della rivoluzione, a fare l’inchino di rito, scherzando con classe: “Gli Stones suoneranno a Cuba, noi avremo giusto qualche incontro…”. Di certo, Mick Jagger & co. hanno un primato che nessuno toglierà loro, avendo piazzato la tongue – ridipinta con i colori del vessillo cubano – come una bandiera, che allora aveva ancora Castro quale alfiere e presenza titanica del backstage politico. Nel frattempo Fidel è divenuto una spiritual guidance, gli USA hanno eletto un presidente che minaccia di fare marcia indietro rispetto sulle aperture all’isola, mentre gli Stones sono in procinto di pubblicare un album blues (Blue & Lonesome) che, almeno nelle sonorità, anticiparono proprio nell’Olé Tour. Ma questa è un’altra storia.