Aquarius e l’inconciliabilità tra passato e presente

Aquarius di Kleber Mendonça Filho vive di un’ipertrofia – di tracce narrative, piani temporali, segni disseminati sul percorso, oggetti, canzoni – che può costituire un limite per lo spettatore. O al contrario, può lasciarlo affascinato, piacevolmente stordito, come al risveglio da un sogno di pura seduzione. Tre capitoli (I capelli, L’amore e Il cancro di Clara) imperniati sul complesso residenziale Aquarius, affacciato sulla spiaggia di Boa Viagem a Recife. Lo si vede in foto in bianco e nero, vivace com’era negli anni ’60 e poi oggi. Dentro Aquarius l’unico appartamento ancora abitato è quello di Clara, ex giornalista musicale in pensione, vedova da 17 anni, testardamente attaccata a quelle mura che hanno visto la sua famiglia nascere, prosperare, sfaldarsi. E infatti il film inizia come una saga familiare, per poi deviare nella storia di un assedio teso ad una donna sola (o è un autoesilio volontario?) e avere un colpo di coda come critica al capitalismo sfrenato, che ha ridotto Recife a un cimitero di grattacieli e schiaccia ogni eccezione a nepotismo e omologazione. Donna Clara ha 65 anni, è possidente, colta, raffinata, anche un po’ scostante. È consapevole di essere stata bella e di esserlo ancora. A dispetto dell’unità di luogo e dell’esibita venerazione del regista per l’attrice protagonista (nome e corpo leggendario fosse anche solo per il triplice ruolo Il bacio della donna ragno di Hector Babenco) sarebbe semplicistico ridurre Aquarius a una critica alla speculazione edilizia, quando è più una riflessione complessa, critica, sull’inconciliabilità tra passato e presente, più chiaroscurale, meno antinomica e definita di ciò che appare. Il personaggio di Clara è più controverso e attaccabile di quanto suggerisca una prima lettura. È la stessa (r)esistenza anacronistica dell’edificio del titolo a stravolgere la consequenzialità tra piani temporali. La dicotomia, il conflitto, torna anche nei tanti momenti di assopimento, le apnee temporali di Clara: a volte seguiti da frame con doppia messa a fuoco su esterno e interno (split dioptics alla De Palma), lontano e vicino, appunto. Lo stratagemma fotografico, così come lo zoom, nel suo abbracciare il totale e il dettaglio, ricalcano l’atteggiamento della protagonista: il tentativo impossibile di trovare una continuità tra ciò che è stato, senza perderne il senso, con ciò che è, che ne pare privo. Di tenere insieme il quadro. Lo sforzo di ogni esistenza, a ben vedere. Ma quello che più lascia il segno è quanto e come Aquarius (molto più di altri documentari musicali usciti nel 2016) celebri il potere salvifico della musica, che non si limita alla constatazione del mestiere di Clara; la cosa che più la definisce è il suo orgoglioso attaccamento alla musica, prima che al suo appartamento, o per lo meno, in parallelo.

È come se questo film, dedicato a Prince Roger Nelson e al critico di Recife Joao Carlos Sampaio indicasse la musica come unica risposta all’ineluttabilità del suo destino di donna anziana e sola. Non si tratta di nostalgia, ma di presa d’atto di uno scarto insanabile, e insieme di una gloriosa volontà di godersi fino all’ultima goccia di vita: mentre i giorni dell’amore, anche se la curiosità per il sesso (interrotto o pagato) rimane, sono lontani, i Dancin’ Days (la telenovela con cui Sonia Braga è stata conosciuta in Italia) non sono del tutto finiti, per Clara, che continua a ballare e ad appoggiare la puntina sui suoi amati vinili. Destinata alla sconfitta come il Barry Lyndon che campeggia nel suo salotto, nonostante l’apparente finale alla Erin Brockovich che non certifica la vittoria di nessuno, se non della potenza crudele del tempo/termiti, Clara vive l’ambiguità di essere una privilegiata sociale: senza i suoi contatti informati non potrebbe andare come Davide contro Golia. Il suo vero appagamento risiede nella condivisione della musica, non solo analogica: ma è sempre stato così, per lei. Nella prima scena del film condivide con fratello e amiche nell’autoradio la – allora – anteprima Another One Bites the Dust dei The Queen). Ancora in auto con il nipote si scambia musica su mp3, e gli indica Maria Bethania come guida per non vergognarsi dei propri sentimenti con la giovane fidanzata carioca. È una selezione orgogliosamente nazionalista – da Maria Bethania, sorella di Caetano Veloso, a Gilberto Gil, Roberto Carlos e altri meno conosciuti – che riprende i Queen quando il bisogno d’amore si fa più acuto (fat bottomed girls you made the rocking world go round). La musica è vettore d’amore, di una libertà di espressione anche sessuale di cui oggi Clara sente la mancanza, non solo a livello personale ma sociale. La paura di una donna sola, il senso corrosivo di vicinanza alla morte, il vuoto e il silenzio di quel cimitero da cui Clara fugge quando vede estrarre le ossa dalla terra per fare spazio ad altri corpi, è colmato oggi dalle canzoni, anche solo dall’idea di aver condiviso un messaggio in una bottiglia, come il vinile di Double Fantasy che contiene un’intervista a Lennon. È come se Aquarius, l’edificio e il film, più che rivendicare un’idea di giustizia sociale, si ponessero come dei contenitori di mondi, degli acquari a sé, delle macchine del tempo, in cui oggetti, dettagli, foto rimescolano il tempo in un continuo, ipnotico flash back and forward. Uno schizofrenico, amaro rimando di piani tra attualità e storia, privato e politico, permanenza e annientamento di cose e persone. Un’elegia di disperato attaccamento alla vita. Che vive, ovviamente, anche in Hoje di Taiguara, canzone che chiude il film.

Oggi
Porto nel corpo i segni del mio tempo
La mia disperazione, la vita in un momento
La fossa, la fame, un fiore, la fine del mondo
Oggi
Porto negli occhi immagini distorte
Colori, viaggi, mani sconosciute
Cercano te nude, tra le lune, per le strade
Nella solitudine delle notti fredde
Oggi
uomini senza paura approdano al futuro
Io ho paura, mi sveglio e ti cerco
La mia stanza buia è inerte come la morte
Oggi
Uomini di acciaio confidano nella scienza
Io ne diffido e abbraccio la tua assenza
Che è ciò che mi resta e vivo la mia sorte
Ah, sorte
Io non vorrei una giovinezza così perduta
Io non vorrei percorrere la vita morendo
Io non vorrei amare così
Come ti ho amato