Arthur Rambo – Il blogger maledetto di Laurent Cantet

Una volta ha detto: «Dispongo i miei personaggi intorno a un quesito che ritengo fondamentale: qual è il nostro posto nel mondo?». Ecco, c’è sempre un’inaggirabile parzialità, un’incompiutezza in movimento – che sia Vers le sud  o si muova Entre les murs -, un’interiorità frammentata nel cinema di Laurent Cantet. Del resto, davanti al suo ultimo film, Arthur Rambo – Il blogger maledetto, basterebbe già solo il titolo diviso tra poesia e guerra, tra l’arte e la violenza, tra Rimbaud e l’icona che dobbiamo a Sylvester Stallone, a depistare il senso, a interrogare la realtà e le sue immagini, a rendere tangibili traiettorie sotterranee, fallaci e incerte. Arthur Rambo sembra un salto nel tempo, come a tornare, a rientrare tra le pareti di quei ragazzi di La classe che però nel frattempo sono cresciuti (peraltro anche nel film del 2008 c’era tra i tanti giovanissimi interpreti Rabah Naït Oufella, qui attore protagonista del racconto); ma è anche – e soprattutto – un film problematicamente innestato tra le maglie del tempo presente, traccia vibrante di un cinema fatto di scarti simbolici e inquieti spaesamenti, tra crepe identitarie e punti di fuga (im)possibili. Un film sulla responsabilità individuale, dunque un film sociale (e quindi, ancora, social, sulla nostra vita fusa tra verità e comunicazione digitale), una favola nera, con la realtà di un giovane di origini maghrebine che da sogno diventa incubo, una storia che si apre e si chiude (ma che non può finire) nel giro di 48 ore, un’opera scissa, quasi stranamente allucinata, piana e distorta, con personaggi che appaiono e poi scompaiono come fossero fantasmi notturni. Un’opera doverosamente incompleta, di un realismo fluido, effimero, graficamente disturbato. Un personaggio, il giovane Karim D., e la sua storia in parte ispirata a quella vera dello scrittore e blogger Mehdi Meklat. Karim D. che ha appena pubblicato un libro di successo, il racconto della sua storia e soprattutto quello di sua madre, uno spazio narrativo ed emotivo in cui molte persone riconoscono se stesse e per questo gli sono grate.

 

 

 

 

Coccolato dalla intellighenzia e amato dalla “sua” gente, il protagonista ci mette pochissimo a crollare: in Rete vengono diffusi i suoi orrendi tweet antisemiti, omofobi, misogini e pro-Jihad pubblicati anni prima sotto lo pseudonimo di Arthur Rambo. È un attimo. In poche ore il web esplode, la casa editrice lo molla, l’estrema destra si scatena, i suoi amici e gli estimatori gli voltano le spalle, la donna che ama non sa più chi lui sia davvero, sua madre è dolorosamente incapace di comprenderlo, suo fratello, più piccolo di lui, lo sostiene ma forse per le ragioni sbagliate. Arthur Rambo era solo un esperimento sociale per testare i limiti della gente, era un bluff, era un tentativo di “esistere” («Twittare come respirare», racconta Karim D., «un tweet, un respiro»), di un’autoaffermazione poi incanalatasi altrove, il prodotto di una rabbia generazionale?. Sono domande che circolano senza trovare risposta definitiva, come Karim D. che si muove nel giorno e nella notte di Parigi alla ricerca di approdi sicuri (Débarquement è del resto il titolo del libro che lo ha lanciato) ma senza riuscirvi. E in questo racconto profondamente morale senza moralismi, in questo movimento illusorio, in questo film in  cui il regista non giudica ma trova piuttosto nel dubbio più stratificato la sua posizione, lo schermo del cinema diventa anche, ritmicamente, schermo precariamente social, l’immagine di altre immagini che non vediamo, che non esistono, un contenitore di caratteri, un’immagine senza immagine. Un film residuale, di una verità ridotta a lacerto, a brandello di senso, di significati molteplici e inaccessibili; un lavoro scisso e fuso, instabile e compatto, di svelamenti vulnerabili e di scarti insanabili. Karim D. come mistero irricevibile e irrinunciabile.  Un’opera debitamente inadeguata, ipnoticamente aperta.