Baby Driver

Baby Driver – Il genio della fuga: un film-vinile, da riascoltare e rivivere

Baby è in macchina, ascolta musica a tutto volume con delle cuffiette che, da qui in avanti, non si toglierà quasi mai: le usa per coprire un fischio che gli tormenta l’udito, memoria di un trauma difficile da dimenticare e impossibile da rimuovere. Aspetta che i due uomini e la donna che sono con lui terminino il loro lavoro: una rapina in banca che noi vediamo sfocata, sullo sfondo, a cui prestare la medesima disattenzione che gli riserva Baby. In perfetta sincronia con il ritmo della musica si svolge poi l’inseguimento in cui scopriremo che il ragazzo è un portento, che non ha paura di nessuna manovra o incidente perché quelle emozioni per lui sono estranee, le vive come un riflesso, altro da sé. Baby non segue l’adrenalina, non è un fast and furious: ha lo stesso distacco dei protagonisti di Driver l’imprendibile di Walter Hill o di Drive di Nicolas Winding Refn. Ma rispetto a loro ha uno spirito meno dolente, più aderente ai tempi. Ha un passato drammatico che viene raccontato come un aneddoto, un incidente di percorso utile solo a spiegare la sua presenza lì, in quel mondo, tra quei criminali con cui non ha nulla da spartire. Nella scena successiva capiamo ancor meglio le intenzioni di Edgar Wright, autore della Trilogia del CornettoL’alba dei morti dementi, Hot Fuzz e La fine del mondo – e di Scott Pilgrim vs. the World, in cui già ibridava il linguaggio cinematografico con ritmi e lampi da videogame inglobando nella narrazione l’ammicco al suo pubblico di riferimento: il suo cinema è un atto puramente ludico, chiuso in se stesso, capace di entusiasmare in maniera endogena.

Una manifesta furbizia che funziona come un meccanismo perfetto, perché Baby Driver sa essere allo stesso tempo un action e un musical (senza “sospensioni” ma intrinsecamente dominato da una scansione ritmica che nulla invidia a La La Land), un film sentimentale e un coming of age, un videoclip e un esperimento meta-cinematografico. È vero che, come scrive Pier Maria Bocchi, «l’immagine non racchiude più dei simboli, non rimanda a niente: si sacralizza nel suo farsi adoperando un rapporto di somiglianza con sé stessa (con il suo passato, la memoria, il ricordo)», ma è anche vero che questa assoluta autoreferenzialità è coerente con il suo essere un film-modello, prototipo di un intrattenimento che dialoga con i blockbuster contemporanei proponendo un’alternativa cinefila e consapevole, che ha un’anima puramente cross-mediale, che sa farsi astratto nella sua geometria di linee – orizzontali e verticali – e suoni, esemplare nella sua originalità derivativa. Baby Driver è un film a cui non sarebbe giusto rimproverare certe atmosfere vintage perché il loro utilizzo (e quello delle scelte musicali tra i classici R’n’B della Stax e l’indie-rock contemporaneo, delle collezioni di iPod, delle mode e dei comportamenti) è già oltre la nostalgia, ben dentro un’idea onnivora della memoria che è parte integrante dell’operazione se non il suo senso ultimo. La particolarità quasi illusionistica di Baby Driver consiste nel mostrarci cose che abbiamo la sensazione di aver già visto (tutte, milioni di volte) ma di non aver mai visto in questo modo: un risultato ottenuto grazie alle fantasmagorie virtuosistiche della regia di Wright, all’andamento melodico della narrazione, alla declinazione leggera dei personaggi, al confortevole senso di ipnosi che il film trasmette. Un gioco di identità e straniamento che attira e coinvolge, facendo dimenticare (se non apprezzare) la programmaticità dell’intera operazione. E così capiamo la canonizzazione di tutti i personaggi (il protagonista dannato che sogna romanticismo e fuga, il gelido cervello criminale, il delinquente pazzo, la coppia innamorata e perduta nelle dipendenze) e il loro assumere un carattere esemplare, universale, iconico. Baby Driver è un film-vinile, da riascoltare e rivivere, costruito seguendo il ritmo delle canzoni (in maniera fin troppo smaccata: in una scena il protagonista fa ricominciare un brano musicale per avere un attacco della scena sincronizzato in maniera migliore con le immagini, una sorta di montaggio su schermo) e coreografato nel suo danzare tra i generi senza dimenticare che al pubblico, se lo vuoi conquistare, devi dargli una storia d’amore e un afflato di libertà, cose che puntualmente Wright ci regala. Un film che forse segue una ricetta fin troppo dosata con il bilancino, ma bisogna ammettere che il dolce, alla fine, è riuscito davvero bene.