Berlinale 71 – Un musée dort di Camille de Chenay e il senso della percezione

Il ticchettio, il falso movimento, del tempo reso palpitante sulla superficie, la profondità, i meandri dell’immagine. Tempo sonnambulo, che si avvita in un labirinto dove lo slabbramento tra realtà e sogno è costante al punto da diventare indistinguibile. Lo vive Ornicar, giovane uomo protagonista di Un musée dort, sorprendente opera prima della cineasta francese Camille de Chenay (nella selezione della Settimana della Critica della Berlinale). Il senso di questo film, girato in 4:3 e che per più ragioni fa pensare al cinema di Robert Bresson, si “riassume” in una breve scena in cui Ornicar osserva le lancette di un orologio a muro che prima avanzano, poi arretrano, poi si “incantano” senza andare né avanti né indietro. Tre “dimensioni”, tre “spazi” percettivi che sintetizzano lo stato di smarrimento, di confusione, di inquietudine di un uomo in disperata ricerca della donna amata, Chloé, che però proprio lui aveva lasciato un anno prima per un improvviso bisogno di scomparire. Eppure Chloé è la sua magnifica ossessione, la immagina, ripensa, “vede” nelle sue esplorazioni flâneur dove giorno e notte si confondono, come richiamato dalla struggente invocazione di lei in apertura di film, filmata in primissimo piano, occhi enormi, mani sul volto e sui capelli, la voce che chiede: “Torna”.

 

 

Su questo dislivello, questo scarto temporale primario, se ne innescano sapientemente altri grazie al ricorso a un montaggio scheggiato, un montaggio-tempo dove le immagini si ri-presentano, i gesti sono ripetuti come in un loop (si pensi a Ornicar che passa più volte davanti ai cancelli di un parco, come se fosse imprigionato in una circolarità senza possibilità d’uscita). Tutto parte dalla sua mente, dalla sua rigidità fisica e al tempo stesso adattabile in certi contesti (vale a dire nel rapporto con la natura) e dal suo sguardo pressoché immobile da “sognatore” bressoniano. Mentre la riproduzione in cartolina di un quadro del pittore ottocentesco francese Gustave Moreau intitolato Jupiter et Sémélé (Giove e Semele – e Jupiter è anche il nome del bar in cui Ornicar trascorre una notte in stato di trance) lo accompagna, la tiene sempre con sé, è memoria e desiderio e fonte di ulteriori deviazioni del suo percorso fisico e mentale. Deviazioni che si espandono nelle sale del museo vuoto, visitato da Ornicar, e che, nelle parole della bigliettaia che “legge” le pene d’amore non solo del giovane ma di tante/i altre/i che l’hanno preceduto, assumono altre connotazioni labirintiche, oniriche, visionarie. I quadri, sostiene l’interlocutrice, quando gli occhi umani si addormentano, “escono” e li abbracciano, li confortano.

 

 

Camille de Chenay tiene insieme tutti questi elementi, e altri (perché in questo ritratto luminoso di una frammentazione interiore anche l’erba, gli alberi, le radici, prendono nella notte la parola e commentano le azioni degli uomini, apparendo, questo sconfinamento surreale, come un fatto del tutto naturale per come è filmato e reso poeticamente credibile), facendo sua la lezione bressoniana di un cinema che si concentra sul particolare, sulla scomposizione dei corpi dei personaggi e degli spazi per creare infine un insieme da tale scomposizione. Non serve vedere tutto. Le mani di un accordatore di pianoforte, mai visto per intero, sembrano dirigere la colonna sonora dove quello strumento accompagna tutto il film con le sue note ipnotiche e anch’esse visionarie). E la città ci viene restituita altrettanto per dettagli, flash di insegne, parole, edifici, cani per strada, videocamere di sorveglianza, fili elettrici, binari… Un musée dort invita a compiere un’immersione totale nei tanti strati che un’immagine può contenere, è una storia d’amore che esiste, come ogni storia d’amore, in un suo tempo che esclude la razionalità, che ha quel tempo atemporale impresso sui volti degli amanti. Un ticchettio che emana dall’intensità dello sguardo febbricitante di passione di Chloé e da quello errante di Ornicar, la cui faccia infine sparisce dietro un grande orologio che gliela copre. Immagine che appare come l’incarnazione cyborg del deambulare di un uomo-tempo rinchiuso nel proprio labirintico dormiveglia.