Brado di Kim Rossi Stuart: un western esistenziale nella terra di mezzo

Il legame padre-figlio è il tema portante di Brado, terza esperienza di Kim Rossi Stuart dopo Anche libero va bene e Tommaso dietro la mdp, e in cui il western crepuscolare funge da contenitore atto a sviscerare i sentimenti – incancreniti, disillusi, rancorosi – di una famiglia atipica. Dopo tanto tempo, il giovane Tommaso (Saul Nanni) torna al ranch dal padre, il burbero Renato (Kim Rossi Stuart), infortunato a un braccio, per aiutarlo ad addestrare un cavallo indomabile. Un «western esistenziale», definito così dallo stesso Rossi Stuart e dedicato alla figura di suo padre Giacomo, volto di quel cinema bis nostrano che oggi echeggia più che mai nella nostra memoria sotterranea di celluloide. E che qui trova spazio in un rimando ai lacrima movie degli anni Settanta: il genere western è puro contenitore per incarnare metafore crepuscolari di libertà alla Gli spostati (lo stallone indomito; la staccionata di legno marcio da cui fuggono i cavalli; il riscatto personale del mancato cowboy Renato – definito esplicitamente come il Clint Eastwood de’ noantri – in luogo del vile denaro che smuove gli animi disincantati di Clark Gable e Montgomery Clift), di fantasmi del passato da esorcizzare nonostante l’amor proprio maschio, eremitico ed ermetico, riflesso più che mai negli sguardi – cerulei e cinici – di Renato e di Tommaso. Quando, in verità, tutto confluisce nell’emozione cruda (prima soffocata, poi urlata) evocata dalla lacerazione affettiva dei legami: il rapporto padre-figlio certo (soprattutto nella straziante sequenza d’ospedale, tra Sirk e Raimondo Del Balzo, in cui si raggiunge l’acme del loro rapporto finalmente spoglio da quell’orgoglio testosteronico), ma anche quello tossico tra Tommaso e la pseudo-fidanzata Rachele (in parallelismo con l’indole della madre di lui, Stefania). Insomma, western all’apparenza; più melodramma «esistenziale», appunto turgido, lividamente fotografato, che va a sigillare l’esistenza incompresa (e pure incasinata) di quel Tommaso protagonista di Anche libero va bene (2006) e di Tommaso (2016).

 

 

Brado (il titolo deriva dal nome del ranch di Renato), sceneggiato dallo stesso Rossi Stuart assieme a Massimo Gaudioso, è la terra di mezzo tra, appunto, Anche libero va bene e Tommaso, ovvero la giovinezza libera e rabbiosa che s’inserisce tra infanzia e maturità. Tutti e tre i titoli seguono la vita degli stessi caratteri: cambiano i contesti, le situazioni, ma i sentimenti e i conflitti interiori restano immutati, soprattutto in Stefania, figura materna volubile e incostante (Barbora Bobulova la riprende da Anche libero va bene con puntuale bravura continuativa) oppure in Viola (Federica Pocaterra), sorella di Tommaso, figura marginale che funge però da prezioso collante tra padre e figlio (sarebbe interessante poter conoscere anche la sua storia). Rossi Stuart attua una regia essenziale, dietro la mdp costruisce interessanti quadri campestri in odore di morte senza però concedere particolari scosse grammaticali; a livello interpretativo, invece, si percepisce tanto lo stridore tra il suo bel volto angelicato (“sporcato” e segnato per esigenze di copione) e la figura di bovaro iracondo (soprattutto verso la sua unica cliente-amante del maneggio), misantropo, gratuitamente spietato (non si fa scrupoli nell’affogare alcuni cuccioli di cane), letteralmente zozzo dalla testa ai piedi. Al suo opposto troviamo il giovanissimo Saul Nanni, da tenere d’occhio – seppur possieda ancora diverse acerbità tecniche – per come sia riuscito a reggere sulle spalle il tormento di un personaggio dalla caratura non così scontata.