Cambiare o morire: Chien de la casse di Jean-Baptiste Durand

Abbassare lo sguardo, denunciare le proprie fragilità, essere vulnerabili, esposti, spezzati. Mirales e Dog, due amici, fratelli, compagni di solitudine più che di avventura. Inseparabili, fin dall’infanzia complici, vivono in un piccolo villaggio del Sud della Francia. Ci troviamo a Le Pouget, accanto a Montpeyroux dove è cresciuto il regista Jean-Baptiste Durand, paesino da duemila anime, lontano dal traffico, immerso nella natura, distante da quelle complessità da cui fugge Elsa che, infatti, si rifugia nella casa della zia per le vacanze dall’università. Luogo marginale, lontano, in cui il tempo assume un significato altro perché fatica a tenere conto di altro. Mirales e Dog, nomen omen, girano a vuoto, occupano il vuoto del proprio borgo in attesa di un qualcosa che dovrebbe accadere, avvenire, realizzarsi. Ma non c’è. Una fratellanza che porta alla fusione e a far scomparire l’uno nell’altro: non solo Mirales domina Dog ma sente il bisogno di farlo, rendendosi conto di esserne legato in modo indissolubile. Al contrario, Dog sente l’urgenza di tagliare il cordone ombelicale con l’amico ma poi si sente in dovere di rendere conto. Per questo, quando inizia a sentirsi attratto dalla presenza di Elsa, la distanza che si instaura tra lui e Mirales genera una frattura che porterà i due a crescere e forse trovare il proprio posto nel mondo. Legami e separazioni, quindi. È intorno a queste opposizioni che si stringe il primo lungometraggio di Jean-Baptiste Durand, impegnato finora in cortometraggi dedicati a giovani e marginalità, periferie, disagio e precarietà. Con il suo Chien de la casse sceglie di fare i conti con la complessità delle domande, della ricerca del sé, della scrittura di uno sguardo che interpella perché è segno di pretesa, attesa, resa, controllo, potere come brama di dominio, desiderio di riconoscimento, sfida all’altro.
 
 

 
Il titolo ricalca un’espressione tipica dei quartieri di periferia, termine di paragone della vicenda, e significa il “cane dello sfascio” cioè colui che fa le cose per sé, malgrado i suoi amici; ogni “cane dello sfascio” crede che gli altri siano “cani dello sfascio”. Una dinamica rappresentativa dell’amicizia che unisce questi ragazzi e che riflette la relazione padrone-cane, ma anche uno spartito definito da un rapporto dominante/dominato, ma anche un legame tenuto insieme da un amore indefettibile, un coraggio e una fedeltà al limite dell’assurdo. Il film così mette in relazione due mondi opposti, due modi opposti di guardare e rappresentare il mondo: da una parte Mirales (Raphael Quenard, Rivelazione maschile ai Cesar 2024, talentuoso attore dal fascino ipnotico), alto, spigoloso, scontroso, colto e nevrotico, malconcio e perso nella sua malinconia e dal desiderio di dominare l’altro, giudicando e provocando. Il suo modo di volere bene graffia e brucia. Non si sente a proprio agio nella sua pelle, nel luogo in cui vive e porta uno sguardo compromesso sul suo mondo che vorrebbe cambiare o lasciare. È in bilico, nella periferia di sé stesso; legge, è acuto, si interessa alle cose ma è come se tutto non avesse senso, non avesse respiro, ampiezza, profondità. Come se nulla valesse per la storia e fosse contenuto. Scansa l’idea di diventare adulto e trasformarsi, forse evita di amarsi di più, e cerca di cambiare gli altri. Dall’altra parte Dog (Anthony Bajon), più semplice e buono, intelligente e taciturno, osserva e valuta, si difende nascondendosi, si muove come un animale ferito, capace di sostenere la frustrazione degli altri. Dog racconta una storia atipica e non canonica: sembra dominato ma si rivela non soggiogato, in grado di ascoltare la propria autonomia, come uno stoico, che ha incassato per anni il dolore del suo amico per amore. L’irruzione di Elsa altera un equilibrio e consente un rinnovamento, non senza lasciare ferite, ma non risolverà il tutto.
 
 

 
Infatti, se il film riesce ad addentrarsi nelle dinamiche relazionali con consapevolezza e pudore, tracciando profili mai convenzionali dettati da sguardi sempre in attesa di risposte e protezione, è proprio perché Durand ha ben chiaro che amarsi significa volere il bene dell’altro riconoscendogli una libertà, occuparsene accantonando le proprie pretese. Soprattutto pare abbia le idee chiare sul fatto che la vera tragedia per l’uomo non sia il conflitto e l’alterità bensì i due estremi che negano questo rapporto: confusione e separazione. E questo perché a Durand, prudente nel mantenere una distanza di sicurezza dai suoi personaggi, a controllare la macchina da presa con consapevolezza del limite, concentrato a mettere a fuoco le ombre e le mancanze nei rapporti, interessa sottolineare il delicato equilibrio tra chiusure e aperture che definisce l’esistenza di ciascuno, l’amaro rapporto tra delusione e desiderio che definisce le storie, il dialogo tra terra e cielo, tra morte e vita, tra immanenza e eternità che restituisce al film una dimensione trascendente e che lo spinge ben oltre la narrazione di una banale incomprensione di una tipica amicizia. Nel finale, in quella videochiamata così fredda, nella scelta di Dog e nella condizione di Mirales, c’è tutta la fragilità di due soggetti esposti al rischio di una solitudine che consuma e condanna e che cerca nell’altro una salvezza. Torna in mente Montaigne, più volte citato: «L’uomo che teme la sofferenza soffre già di ciò di cui ha paura».