È un film molto americano Bull (Un Certain Regard). Lo si intuisce in pochi minuti, dal pronunciato accento dei suoi personaggi, dall’isterismo della ripresa, dai simboli che lo permeano per tutta la durata, dalla sequenza (la più bella di tutte) dell’inno nazionale e dalle numerose bandiere a stelle e strisce che invadono la scena. Si prende le mosse da un classico romanzo di formazione, uno dei più semplici e banali mai raccontati, eppure è proprio a partire da questa base consolidata e per nulla nuova che lo sguardo dell’esordiente Annie Silverstein dovrebbe trovare slancio. Già, perché il toro che dà il titolo al film non è tanto l’animale da domare, la bestia da rodeo sulla quale molti atleti si sfidano per una lotta contro il tempo. Quel massiccio e corpulento mostro da palcoscenico non è nient’altro che la metafora di un Paese al quale è sempre più difficile rimanere aggrappati. Un luogo misterioso, affascinante e capace di attirare su di sé l’attenzione di molti individui alla ricerca di un proprio posto nel mondo.
Tuttavia, è l’America stessa a sedurre e poi abbandonare, a rendersi scivolosa, impalpabile e, soprattutto, pericolosa. L’incontro tra la giovanissima Kris e il suo vicino Abe restituisce lo scontro generazionale alla base di molti dei problemi sociali e degli insuccessi civili di un Paese privo di un anello di congiunzione tra il presente e il passato, privo di un filtro tra speranza e delusione, sogno e realtà. Senza un dialogo, senza un confronto degno di questo nome, l’esito non può che essere fallimentare. Il rischio diventa quindi quello di condurre un’esistenza basata su una lotta contro il tempo, proprio come al rodeo. Lo scopo è rimanere più secondi possibili avvinghiati all’animale, ma per domarlo come si deve, per conoscerlo e vivere in simbiosi con lui, allora sono necessari altri fattori che vanno oltre la materiale essenza della propria corporeità.