Sybil è una psicanalista confusa: ha la passione per la scrittura (e un passato da autrice di successo) e vorrebbe tornare a occuparsi di un romanzo, dimenticando i problemi delle persone; ha un amore finito da tempo che le ha lasciato un dolore indelebile, una figlia da crescere e la pulsione all’alcol da combattere a fatica; vive con un nuovo compagno, con cui ha costruito una famiglia e ha dato un senso riconoscibile alla sua vita, ma verso il quale prova sentimenti contraddittori. Proprio nel momento in cui decide di abbandonare, senza neanche troppi sensi di colpa, gran parte dei suoi pazienti per dedicarsi allo scrivere, il caso le offre l’occasione di una ragazza da seguire in terapia. Margot è un’attrice in procinto di partire per girare un nuovo film in Italia: il protagonista maschile è il padre del figlio che porta in grembo (e di cui si vuole, senza convinzione, sbarazzare) e la regista è la compagna di lui, apparentemente ignara del valzer sentimentale che le ronza intorno. Per Sybil questa è una tentazione troppo forte, l’occasione di intraprendere un nuovo percorso con una nuova paziente e allo stesso tempo trovare fonti d’ispirazione caldissime per il suo nuovo progetto narrativo: essere quindi un narratore onnisciente, nel doppio ruolo di creatrice di storie e di terapeuta personale.Sybil si getta senza rete in questa nuova avventura provocando disastri – per gli altri e per sé – e mettendosi allo specchio per affrontare un passato che non l’ha mai abbandonata.
L’opera terza di Justine Triet – dopo l’ottimo La bataille de Solférino e l’irrisolto Tutti gli uomini di Victoria – vorrebbe essere lo studio di un personaggio sull’orlo di molteplici crisi (nervose, lavorative, sentimentali), sul baratro perenne della pulsione a occuparsi degli altri e l’incapacità di badare a se stessa. Sybil si pone come guida, alterna nevroticamente sedute difformi (quelle che governa nel suo studio professionale e quelle che subisce nella sede degli alcolisti anonimi), si illude di aiutare gli altri non sapendo rinunciare a mettersi sempre al centro di qualsiasi universo, in una sorta di mitomania che inficia e rende inutile ogni suo sforzo analitico. Virginie Efira mette nel personaggio tutta se stessa, con una generosità anche fisica, mostrandosi e concedendosi, con il ciglio sempre umido, in un ritratto tanto contraddittorio quanto irrisolto di una donna sull’orlo perenne di una crisi di nervi. E se la parte iniziale, sebbene sbandando, cerca di costruire delle coordinate plausibili alla costruzione della protagonista, l’improbabile accumulo di temi e tensioni – la richiesta d’aiuto sul set, l’irriducibile smania seduttiva, il continuo riproporsi di un passato dolente, la pretestuosa capacità manipolatoria – rendono il film una dramedy incapace di trovare un tono aderente alla storia che racconta. Sybil è una donna con la testa rivolta al passato e la capacità di rovinare il presente, e non solamente il suo. Non sa gestire, se non con piratesca distruttività, quello che ha. L’influenza che riversa sulla povera Margot (Adèle Exarchopoulos, sempre sull’orlo del pianto, e anche oltre) viene esposta attraverso una litania di trovate narrative dalla sottilissima credibilità. In Sybil si trovano tracce del cinema modaiolo di certo Ozon, anche se il film fantastica, senza successo, l’ipotesi di una variante di alcuni cinici ritratti di Chabrol, senza però averne l’ironia né la capacità di cogliere il cuore di un personaggio. I temi si affastellano: psicanalisi e solitudini, amori indimenticabili e bevute improvvide, liti furibonde e eccessi sessuali, ricordi e rimpianti, i vulcani di Stromboli (un omaggio rosselliniano piuttosto goffo) e il grigio metropolitano. Si finisce per subire una messa in scena di fattori inconciliabili, tenuti insieme dallo sforzo inutile di un’empatia solo immaginata, sospesa tra la volontà di costruire un contraddittorio ritratto di una donna in crisi e la tentazione di sfornare un apologo capace di raccontare lo iato tra talento e tensione, tra accettazione di sé e voglia di superarsi senza paura di usare la vita del prossimo. Sybil però si rivela un’operina slegata, incapace di farsi simbolica e lontana da un’idea di compattezza narrativa. Un tentativo fiacco, che spara cartucce a salve, perdendo – proprio come la sua protagonista – l’idea di una sensata percezione di sé.