L’epica minimale di Leila e i suoi fratelli di Saeed Roustaee

Leila lavora. Potrebbe essere indipendente ma vive ancora con i genitori. La madre è una donna algida e respingente, incapace di dare calore e colore alla propria esistenza; il padre è un vecchio storto e docile, che nasconde sotto l’apparente gentilezza una vita di umiliazioni e che è disposto a tutto per sostituire nel ruolo di patriarca del parentado il cugino da poco scomparso. Leila ha quattro fratelli, ognuno disadattato a modo suo: il maggiore, Parviz, è drammaticamente sovrappeso e, pur non riuscendo a badare a se stesso, sforna figlie in attesa di un erede maschio lavando i bagni di un centro commerciale; Alireza ha perso il lavoro nella fabbrica in cui lavorava senza trovare il coraggio di combattere per il proprio salario; Farhad non sa far altro che allenarsi per ipotizzare una muscolatura simile a quella dei wrestlers americani che ossessivamente guarda in televisione; Manouchehr si arrabatta tra una truffa e l’altra, cercando di risollevarsi da un divorzio doloroso. In Leila e i suoi fratelli, Saeed Roustaee mette in scena una deriva disperata di una società patriarcale; rappresenta uomini deboli che si sentono forti; tratteggia le coordinate di un mondo vittima dell’apparenza dei rapporti personali e basato su equivoci  dettati dall’inettitudine. L’esasperata Leila cerca, perdendo il filo di una razionalità minata dall’emergenza, di trovare un futuro di solidità per i fratelli: ipotizza un affare di famiglia che si concretizza in un negozio (simbolicamente da costruire nei cessi che Parviz quotidianamente pulisce) da acquistare tutti insieme.

 

 

A mancare però sono i soldi che servono per le garanzie bancarie: inadatti a vivere, i quattro uomini si affidano alla sorella, pur trattandola con disprezzo paternalista. Quel che manca è l’aiuto del padre che, con egotismo implacabile, preferisce investire i propri risparmi per finanziare la sua ascesa al ruolo simbolico di patriarca che titilla la sua dissennata ambizione, piuttosto che assumersi oneri e onori di una paternità sempre monca. Questa piccola, reiterata, intima tragedia familiare si dipana in quasi tre ore di film attraverso un crescendo di liti, urla, recriminazioni. La messa in scena, asciutta e scarnificata, regala la ribalta all’inseguirsi continuo di frustrazioni e speranze. I dialoghi si accumulano e si affastellano, mettendo a nudo la precarietà delle relazioni familiari, avvelenate da un’aggressiva insicurezza prettamente maschile. Leila è una badante controvoglia, una donna indipendente costretta a fare la sguattera per la manifesta incapacità degli uomini che la circondano. Lo sguardo verso le figure maschili (e per chi, come donna, le sostiene: la madre) è implacabile e mostra in tutta la sua liturgia malata il ricorso a una sorta di caricatura dei ruoli di potere. I fratelli di Leila sognano senza svegliarsi, ipotizzano soluzioni improbabili, si piegano alle leggi della famiglia anche quando ne vengono schiacciati. Leila è sola, costretta a fuggire da un futuro già scritto anche con azioni dissennate che minano il suo senso concreto di accudimento.

 

 

Leila sbaglia per amore – quell’amore che forse non le è concesso per l’obbligo riverente verso i propri familiari – ma è costretta a tradire gli affetti per provare a proteggerli. Leila e i suoi fratelli ci rintrona di discorsi – non senza qualche consapevole ma eccessiva lunghezza – per immetterci in una realtà difficilmente intaccabile per le leggi non scritte della società iraniana. Roustaee crea un’epica minimale, divagando in scene a suo modo di massa – le preghiere, le riunioni, il matrimonio – per poi rinchiudere i protagonisti ad agonizzare in stanze anguste, riempite di parole come nei film di Kechiche. Leila e i suoi fratelli è un grido continuo; una denuncia tutta concreta di una condizione femminile svilita dalla tradizione, frustrata dall’inadempienza, costretta a farsi nemica degli affetti per disperato spirito di sacrificio.