Il prevedibile compromesso di Ancora un’estate di Catherine Breillat

È curioso vedere un remake a Cannes, specialmente in Concorso. Succede, con Ancora un’estate di Catherine Breillat, che rilegge l’opera prima danese di May el-Toukhy Queen of Hearts plasmandola e adattandola alle corde del proprio cinema. Al centro del racconto c’è un’avvocata minorile – abituata a difendere adolescenti costretti in condizioni difficili, spesso abusati sessualmente, anime in perenne pena – placidamente assorta in una vita familiare convenzionale. Un marito più grande di lei, due figlie adottate, un giardino in cui rifugiarsi nelle pieghe non troppo larghe della routine quotidiana. Anne è dura, sicura, sempre dalla parte giusta. Il marito sostiene il peso di una vita precedente: il figlio del suo primo matrimonio, Théo, tende a mettersi continuamente nei guai e va seguito da vicino. L’arrivo di questo adolescente scontroso e riccioluto nella loro pace apparente scuote Anne, che prima cerca di fonderlo nella famiglia e poi ne diviene irretita, quasi ossessionata, fino a sedurre (o a farsi sedurre, ché è uguale). Ancora un’estate mette in scena un amore proibito – quello tra una donna matura, realizzata, e un adolescente ribelle, figlio di suo marito – sfiorando con decisione i temi dell’incesto (anche se non letterale) e della responsabilità. Breillat, regista abituata allo scandalo, sguazza con convinzione in questo magma di erotismo e questioni morali. Rivendica il desiderio femminile, pur mettendolo in scena con pudicizia forse fin troppo timida. È questo, in fondo, il tema centrale del film: la nascita di un’ipotesi – seppur convenzionalmente proibita – di piacere. Un superare barriere imposte per lasciarsi andare al flusso desiderante e la faticosa ripercussione che impone all’interno di una normale relazione borghese. Il gioco seduttivo tra l’adolescente Théo e l’apparentemente imperturbabile Anne procede per scatti, per sfioramenti, per contatti occasionali ma esplosivi. Lui gioca la parte del ribelle, lei quella della matrigna inquadrata ed empatica. I quadretti di vita familiare sono sospesi tra una certa liturgia ripetuta e gli slanci di affetto, nell’attrazione/repulsione reciproca.

 

 

C’è una certa aria malata nascosta dietro la lucida perfezione degli ambienti, un’atmosfera che rimanda a Chabrol (e forse anche a Hitchcock) nella menzogna, nel sotterfugio, nel bilico morale, utile a ricostruire la tensione di un avvicinamento malato, di una pulsione che non si riesce a sopprimere. Il sesso – appagante ma rappresentato con una certa stitica meccanicità – è il canale attraverso cui i due protagonisti si parlano. Breillat lo rappresenta in tono algido, pittorico, enfatico, concentrandosi sui primi piani alternati dei due protagonisti con un raffreddato rigore geometrico. Il fattore simbolico – affogato in una rappresentazione minimale e asciugata – raddoppia e sottolinea (sfiorando il didascalico) il senso ultimo del film, che sembra sfidare le convenzioni con armi spuntate, accomodanti, in fondo innocue. Ancora un’estate osa con timore, provoca con eccessiva modestia, solleva ma non risolve. Breillat racconta l’avventura imprevedibile dei corpi – dell’amore, della sessualità, del desiderio senza compromessi di ruolo o età – con eccessivo e languido pudore (e non è da lei!), in modo innocuo e depotenziato, quasi soffocato. Il risultato è un film lucido ma fiacco, sospeso tra l’affondo e il disincanto, in cui il finale è un prevedibile compromesso tra ciò che si è e ciò che si ha. Una carica a salve di una materia potenzialmente esplosiva.