Cannes76 – l’inutile ridondanza di Black Flies di Jean-Stéphane Sauvaire

Ollie è uno studente di medicina, si è trasferito dal Colorado a New York per studiare e, per guadagnare i soldi necessari per l’università, fa il paramedico sulle ambulanze della metropoli. Il suo primo impatto con il lavoro è traumatizzante – feriti da sparatorie, vittime di violenza domestica, tossici, neonati ricoperti di sangue – e meno male che c’è un veterano delle strade, Gene “Rut” Rutkovsky, a metterlo sotto la sua ala protettrice. Una sorta di Virgilio che si offre di guidare il novizio attraverso le porte di un inferno metropolitano. Il regista francese trapiantato in America Jean-Stéphane Sauvaire (un passato come collaboratore di Cyril Collard e Gaspar Noé, e un po’ si vede) ha adattato Black Flies (in concorso a Cannes76) dall’omonimo romanzo dello statunitense Shannon Burke, rimestando nell’immaginario canonico della città maledetta di notte, attraversata dalle luci e dalle sirene delle ambulanze che cercano di salvare, apparentemente, i dannati che la abitano. Il modello ineludibile è, ovviamente, il magnifico Al di là della vita di Martin Scorsese, un delirio ai confini del misticismo scritto da Paul Schrader e interpretato da un allucinato Nicholas Cage. Ma se in quel film i ritmi serrati e le corse – spesso inutili – contro il tempo e contro la morte erano sostenuti, oltre che dalla mano e dallo sguardo di Scorsese, da un afflato metafisico ben radicato nella scrittura di Schrader, in Black Flies la voglia di una rappresentazione adrenalinica di un’umanità in bilico, puntellata per altro da simbolismi grossolani, rende la narrazione ordinaria più che evocativa, ridondante più che simbolica.

 

 

Tye Sheridan (Ollie) sgrana gli occhi di fronte a un orrore che gli appare davanti agli occhi con sempre più sfacciata violenza, mentre Sean Penn regala al suo Rut – testimone delle ferite ripetute della città, a partire da quelle dell’11 settembre – un’aria dolente e masticata, simile a quella di tanti suoi personaggi. Sauvaire affronta questo panorama ferito con uno sguardo grossolano, incapace di trasmettere pienamente la sofferenza di questi uomini in continuo corpo a corpo con la morte, ridotti spesso a essere semplici mosche – le “black flies” del titolo – che ronzano intorno a una sequela di corpi destinati a diventare cadaveri. L’eventuale speranza si può nascondere solo nelle pieghe dell’anima di questi paramedici, spesso costretti a un’amoralità di sopravvivenza, sospesi in un limbo tra la vita e la morte, ma nelle cui mani si conserva l’ipotesi di salvezza di un’intera comunità. Un tema così bollente e traumatico che Sauvaire riduce purtroppo a una riproposta di schematismi da noir metropolitano, a un ritratto canonico del rapporto tra mentore dolente e allievo traumatizzato, a una messa in scena inutilmente e rumorosamente sopra le righe, ma in fondo vittima di una palpabile banalità di sguardo.