Cannes77 – Lo sguardo antropologico di Three Kilometers to the End of the World di Emanuel Pârvu

Adi vive con i suoi genitori sul Delta del Danubio, un luogo incontaminato di acqua e verde che si ripete sempre uguale. Un pesto sperduto, certo, ma sempre più frequentato da una gioventù metropolitana disposta a sovvertire le regole e a spostare l’asticella della libertà. Adi ha un nuovo amico, forse amante, che lo spinge a seguirlo a Bucarest; ma tornando da una festa le leggi immutabili del luogo chiedono il conto. Adi torna a casa pesto, picchiato da giovani del luogo che lo vedo insorgere alle ritualità imposte, lo puniscono per un’ipotetica omosessualità. Basta questo per mandare improvvisamente in frantumi l’idilliaco quadretto familiare fatto di pasti affettuosi e giornate di pesca paternalistiche. L’incidente crea un effetto domino: le autorità locali tendono naturalmente all’insabbiamento, favoriscono l’oblio e la rimozione; le investigazioni che vengono da fuori cercano invece la verità, una protezione impossibile per il giovane. Adi è così stretto tra un’omertà coatta e un desiderio troppo a lungo represso di autodeterminazione. Quello che verrà messo in discussione è però l’impostazione solo apparentemente libertaria di una famiglia fintamente felice: il ragazzo dovrà scegliere tra la natura e la cultura, tra ciò che si sente di essere e ciò che ci si aspetta da lui, per far proseguire immutabile la buona scia degli eventi e della reputazione.

 

 

A picchiare Adi è stato il figlio di un notabile della zona, creditore del padre, che cerca sin da subito la negazione del fatto per poi giungere all’ipotesi di un patteggiamento inteso come naturale. Alle rimostranze del ragazzo, padre e madre si rivolgono a una preistorica messa in scena di un esorcismo, mostrando il vero lato compulsivo di una violenza domestica, fisica o psicologica che sia. Three Kilometers to the End of the World, opera terza del regista e attore Emanuel Pârvu (lo abbiamo visto in vari film dei connazionali Cristian Mungiu e Adrian Sitaru), cerca da subito uno sguardo antropologico nei confronti della materia raccontata; mette in chiaro le cose per poi analizzarle con una lente neanche troppo ravvicinata. L’obiettivo di Pârvu sembra da subito quello di delineare un baratro tra chi è assuefatto a una sorta di legge di natura, atavica e immutabile, e tra chi tenta faticosamente di liberarsene sulla propria pelle. Che è, non secondariamente, anche un conflitto generazionale, uno scontro di realtà. L’idillio familiare fatto di aspettative e promesse crolla implacabilmente sotto i colpi di una modernità – rappresentata anche, e un po’ goffamente, da una rivendicazione sessuale – rifiutata a priori, percepita come un pericolo per le fondamenta stesse di un assetto sociale.

 

La conferenza stampa del cast di Three Kilometers to the End of the World di Emanuel Pârvu

 
Adi è una vittima inconsapevole fino a quando costruisce una propria consapevolezza, implacabilmente predisposta al rifiuto e al disprezzo, destinata a una sconfitta dal sapora atavico. Pârvu però, nel raccontare questa storia di impossibile rinascita e di perenne frustrazione, usa meccanismi rigidi, sembra imporre sempre un punto di vista giudicante, lavora con regole d’ingaggio al limite della rigidità. Insomma: Three Kilometers to the End of the World (in concorso a Cannes77) resta fino in fondo ingabbiato nella trappola del film a tesi; esplica invece di suggerire, finendo anche per togliere aria e spazio ai propri personaggi. Pârvu vuole rappresentare un improvviso incubo familista, rafforzato e raddoppiato dai simboli di un potere più o meno terreno – il pope, il commissario, i servizi sociali – per mostrare il fallimento di una speranza di rivalsa, la deriva di una mentalità autoriferita, la sconfitta di ogni sogno possibile. Il risultato è un film che si esaurisce nelle proprie conclusioni, che asserisce invece di suggerire, che guarda i suoi protagonisti da una posizione sempre distante e a suo modo privilegiata, finendo per essere un’operazione cerebrale, asettica nella denuncia e anodina nella messa in scena dei sentimenti. Un saggio, più che un appassionato racconto; una rivendicazione più che una riflessione.