Dal tram alla finestra… Il grande Za insisteva per il primo, Fulvio Zappellini (il carismatico sceneggiatore interpretato da Roberto Herlitzka: “una sintesi di Scarpelli, Zavattini e Amidei” confessa Virzì) invita i giovani sceneggiatori a guardare dalla finestra. La differenza non è da poco, si potrebbe anzi dire che è un po’ il cardine problematico di Notti magiche, l’inciampo in cui Paolo Virzì incorre nel momento in cui sembra dare più credito alla cornice della finestra, al punto di vista statico di una rappresentazione fissa e contemplativa del mondo, invece di affidarsi all’attraversamento zavattiniano della realtà, al travelling su rotaie che crea contatto, immersione, ascolto e osservazione. D’accordo, Notti Magiche è l’amarcord che Virzì si concede, l’immersione nella materia amniotica del suo cinema, ma prevale fatalmente la voglia di sagomare la realtà, invece di raccontarla nella sua flagranza. Il film è una sorta di tableau vivant che sorge dichiaratamente dai vapori dall’esperienza del regista negli anni della sua gioventù da giovane cinematografaro e si condensa sul vetro di quella finestra oltre la quale resta invisibile il mondo reale.
E quindi la prima cosa che ci si chiede di fronte a un film come Notti magiche è: perché? Perché fare oggi un film sugli anni ’90 del cinema italiano, raccontandoli per quello che in realtà non erano già più? Fingendo che fossero gli anni d’oro di un “far cinema” alla vecchia maniera, gli ultimi fuochi di una stagione mitica della cinematografia e dei cinematografari italiani, quando si pensavano i film nelle trattorie, si girava la forchetta nel piatto ricco della comunità di scrittori, registi, produttori persi nelle serate romane. La (agro)dolce vita di un mondo del cinema che, in realtà, già nell’88 si era rimirata nello specchio delle proprie memorie, tirato a lucido con atteggiamento decadentista da Cristaldi e Tornatore sotto l’insegna del Nuovo Cinema Paradiso. L’ambizione sembra quasi letteraria e la cosa non stupisce, trattandosi di un regista-lettore attento e appassionato come Virzì. E la risposta viene proprio dal suo taccuino dei ricordi, dal bisogno di fare i conti con la memorialistica privata accumulata negli anni trascorsi a Roma da giovane livornese approdato alla corte del cinema. E assieme a lui la co-sceneggiatrice Francesca Archibugi: medesime esperienze, medesime storie, medesima visione affettiva di quel mondo, da affabulare nell’album di macchiette come fosse un presepe del cinema. Sì, insomma, ogni pupo al suo posto nella visione in miniatura di un quadro cristallizzato nelle ben note pose plastiche della scena cinematografara: il produttore ricco, cialtrone e in perenne tracollo; la starlet abbondante di misure e scarsa di intelletto, ma ricca di buon cuore; l’intellettuale intrallazzino in perenne attesa di realizzazione, che conosce tutti e che tutti sfuggono; la sagoma felliniana sullo sfondo, le luci e i fumi dei set, le tavolate di sceneggiatori e registi schiamazzanti; l’avvocatessa potente che crea i contatti e muove i contratti… L’Italia, quella vera, sta da un’altra parte, forse prende i tram e si affatica arrivando ogni giorno ai calci di rigore e magari sbagliandoli, proprio come la nazionale di Italia ’90 che tutti guardano in tv nella sequenza iniziale sul Lungotevere, mentre dal ponte precipita in acqua la macchina con a bordo il corpo di Leandro Saponaro, il grande produttore senza più una lira la cui misteriosa morte diventa il motore del racconto.
Perché poi Virzì, ovviamente, è soprattutto un narratore, sicché si dota di un intreccio per poter seguire i fantasmi della sua memorialistica, che incarna nei tre giovani sceneggiatori che si affacciano al mondo dorato del cinema, carichi di ingenuità e pronti a essere delusi: uno viene dal sud colto e aristocratico (il messinese Antonino), una dal cuore della Roma bene (Eugenia, figlia negletta e stralunata di un potente politico) e uno dal nord (Luciano, toscano figlio d’operaio morto sul lavoro). Nessuno dei tre ha purtroppo la forza di scrittura per diventare un corpo autentico, restano tre figure stilizzate che incarnano tre caratteri senza riuscire ad essere riverbero di un paese reale, di un mondo vero che si approssima al perimetro magico del cinematografo. Dal canto suo, il Saponaro di Giancarlo Giannini, che è una crasi di più possibili figure di produttori (da Cecchi Gori a Juso) vede in loro i margini per continuare a fare cinema, come fosse un cialtronesco vampiro in cerca di sangue vergine. Ma poi è in realtà un po’ tutto il mondo di vecchie glorie decadenti che vuole prendere qualcosa dai tre giovani con il pretesto di dare loro occasioni, sapere, consigli: sceneggiatori bisognosi di “negri” per i loro studi, registi appartati nella loro incomunicabilità, vecchie star. Poeticamente il film si incide proprio sulla traccia, classica del cinema di Virzì, di una relazione generazionale in cui il dare e l’avere sono funzione critica di un rapporto che tradisce la continuità nel senso di una realtà disillusa più forte delle attese. Il gioco tra l’illusione e l’ingenuità dei nuovi arrivati contrapposto alla pulsione vampiresca dei vecchi è quasi la configurazione di un “sistema cinema” che è sostanzialmente un museo delle cere. Ma è tutto un gioco che alla fine cede il passo al tentativo di Virzì di confrontarsi con una tradizione cinematografica italiana di autorappresentazione, che da Fellini e Scola arriva sino a Sorrentino…In Notti magiche Virzì sembra lavorare sullo scollamento dalla realtà con una strana malizia, che lo induce a tradire la scena reale del ricordo nel nome di una memorialistica affabulata. Preferisce divertirsi a immaginare un mondo che non era già più, invece di rappresentarne uno che era. L’Italia ’90 delle Notti magiche del cinema italiano era quella che tre anni prima aveva prodotto (via Nanni Moretti…) la Notte italiana del troppo trascurato Mazzacurati, che pure era un noir con morto ammazzato (sul Delta del Po invece del Tevere), ma che di ben altra realtà si bagnava, evocando atmosfere, cercando sfumature, ombreggiature, di certo non sagome e macchiette… Non si capisce perché Virzì, che sa essere regista colto, attento, puntuale (Il capitale umano, La prima cosa bella) e che proprio in quegli anni ’90 esordiva con un film come La bella vita, abbia voluto immergersi nei vapori di un amarcord tanto sfalsato da apparire fasullo (anche se non insincero, questo va riconosciuto). Notti magiche resta insomma appeso a questa e ad altre domande: perché evocare lo specchio dei Mondiali senza poi utilizzarlo davvero? Perché lavorare in chiave grottesca sulla recitazione, spingendo verso la macchietta le interpretazioni dei tre giovani protagonisti? Perché designare un spectator in fuabula in divisa da carabiniere per rispedire al loro mondo d’origine i tre incauti, inesperti e palesemente incolpevoli giovani narratori? Chissà, forse Eduardo si limiterebbe a chiedere: te piace o’ presepe?