Dare voce alla memoria: Flee di Jonas Poher Rasmussen

Cosa significa la parola “casa” per te?

Casa? Un luogo sicuro. Un luogo dove sai di poter restare e di non dovertene andare. Un luogo non temporaneo.

 

Flee inizia con una domanda. Non potrebbe farlo in altro modo perché è un film confessione che scava nella memoria di Amin Nawabi facendo riemergere pezzi di verità sulla sua vita, lui che dall’Afghanistan arrivò in Nord Europa all’inizio degli anni ‘90, prima a Mosca con madre, sorelle e fratello, poi, dopo vari fallimentari tentativi, in Danimarca con la speranza di chiedere asilo. Oscillando tra presente e passato è un film che rinuncia all’oggettività preferendo l’immedesimazione in uno sguardo. Ibrido nella forma per come mescola finzione e realtà, interviste registrate nel corso di quattro anni, filmati d’epoca e differenti stili di animazione, inoltre, fin dai primi minuti stabilisce con lo spettatore un patto chiaro: se da una parte s’impegna a restituire l’immagine di una risposta che Amin ha atteso per trent’anni, il genere di risposta che, forse, ogni essere umano attende, spingendo ciascuno a mettere in gioco la propria libertà sfidando il destino, dall’altra è come se si servisse dell’animazione per difendere il suo testimone offrendogli la concreta possibilità di esprimersi liberamente senza temere l’impatto con la macchina da presa e il peso dello sguardo degli altri. Al contempo, coniugando il passato rievocato da pezzi pop d’epoca (Take on Me degli A-ha, Joyride dei Roxette, Veridis Quo dei Daft Punk) con la voce affranta di Amin sopravvissuto ma ferito e disorientato, al film interessa mettere in scena una promessa di salvezza, nutrendosi dell’attesa che separa la condizione umana dal raggiungimento dell’armonia definitiva, cuore della sua ricerca esistenziale.

 

 

La pace e la giustizia affiorano in Flee come forze che restituiscono ad Amin una lenta ma sempre più credibile fiducia in sé stesso, manifestazione di una consapevolezza e riconquistata dignità ad amare l’altro e a lasciarsi amare dall’altro. Il fulcro del film non è la fuga intesa come azione che porta l’uomo a scappare dalla propria terra, bensì le conseguenze che il fuggire porta con sé, la difficoltà a ricostruirsi la vita, a fidarsi, a vedere oltre la notte. Amin fugge continuamente da sé stesso, sia come profugo, sia come omosessuale, comunque respinto, in cerca di accoglienza, sempre. Questo è ciò che ha convinto il regista Jonas Poher Rasmussen, attento a non trasformare l’amico Amin in un eroe canonico, una sorta di figura stereotipata e convenzionale, ma semplicemente e sinceramente interessato a dare spazio alla sua voce, ai suoi ricordi, ai suoi sensi di colpa, alle sue memorie ripercorrendo gli anni della sua gioventù. «Amin voleva fare i conti con il suo passato, non essere in grado di condividere il suo pieno sé era diventato un pesante fardello per lui – ha dichiarato Rasmussen – inoltre, voleva condividere la sua storia anche per far capire alla gente cosa significa fuggire per salvarsi la vita». Pur nella semplicità dello sviluppo Rasmussen gestisce bene l’impianto emotivo del film accordando pathos e tensione, astrazione e realismo, colori vividi e desolante bianco e nero. La scelta di una manciata di scene live-action tratte dai cinegiornali d’epoca, che collocano la storia di Amin nello spazio e nel tempo, rafforza la natura documentaria del progetto (alla maniera di Ancora un giorno di Raúl de la Fuente e Damian Nenow) e inevitabilmente conduce lo spettatore a confronti di vario tipo, da Valzer con Bashir a Persepolis da Buñuel – Nel labirinto delle tartarughe a Josep. Molto impattante pure la scelta di abbandonare l’animazione in alcuni passaggi decisivi, tra tutti il finale, quando allo spettatore è chiesto di guardare e immaginare la risposta alla domanda iniziale. Lo spazio della libertà.