Dumbo: quando Tim Burton diventa un esegeta di se stesso…

Parlando di Tim Burton viene quasi voglia di parafrasare Tolstoj e il suo celebre incipit di Anna Karenina: tutti i suoi film felici si assomigliano, ogni suo film infelice è invece disgraziato a modo suo. Le caratteristiche del suo cinema sono apparentemente sempre le stesse: la pulsione verso personaggi sghembi (freaks, reietti, marginali, esclusi), il tono sospeso tra fiaba e allucinazione, la creazione di immaginari e realtà parallele, il ghigno dolciastro della narrazione, il fremito goticheggiante della messa in scena, la creazione di una galleria strabordante di famiglie disfunzionali. Cosa è dunque che rende così visibile (e implacabile) lo scarto tra le sue opere migliori – dalla visione nerissima dei due Batman alla cinefilia stralunata di Ed Wood, dal languore romantico di Edward mani di forbice al delirio fantascientifico di Mars Attacks! – e le stanche ripetizioni di temi e stilemi che caratterizzano e annacquano i suoi film più recenti? Cosa, in una evidente continuità di stile, ha svuotato la sua ispirazione? Forse è proprio una certa acritica adesione a un canone formale da lui stesso creato, la stanchezza che tracima da una meccanica ripetuta all’infinito come un disco rotto, l’essere diventato, nel tempo, un semplice esegeta di se stesso.

Gli ultimi film di Burton, in fondo, sembrano degli apocrifi realizzati da un doppelgänger dalle grandi doti tecniche ma privo di una reale urgenza creativa. Come già successo per Alice nel paese delle meraviglie, che voleva riscrivere Carroll allontanandosi dal cartoon di Disney ma finiva per diventare un pretenzioso monumento vuoto, anche Dumbo sembrava un progetto cucito addosso alle manie e alle pulsioni di Burton. L’originale disneyano era, incastrato tra Pinocchio e Bambi, una bizzarria originalissima, un film non riconciliato e sottilmente crudele: la storia di un elefantino dalle orecchie gigantesche che, con l’aiuto di un topolino cinque corvi e una piuma, riusciva a ribaltare il proprio difetto in un sogno. L’idea del volo, dell’elevazione di sé, del rifiuto della pesantezza che trascina a terra i corpi, raccontata attraverso la storia un pachiderma bambino. Ispirato da un racconto di Helen Aberson e realizzato in economia dopo i costi esorbitanti e il fiasco commerciale di Fantasia, Dumbo aveva in sé uno spirito anarcoide, evidenziato nella strabiliante scena dell’incubo alcolico che gioca con l’inconscio sfiorando i limiti del surrealismo astratto. Nel film di Burton, emblematicamente, le bolle di champagne che intossicavano e liberavano la mente dell’elefantino e del topo Timoteo diventano un banale spettacolo di bolle di sapone, affogando il valore quasi psicanalitico dell’originale e mortificandolo in un ragionamento di pura messa in scena, di asfittico mezzo spettacolare. Tutto, nella versione di Burton, sembra edulcorato, appiattito, legato a una mistica dello stupore che si ripete sempre uguale all’infinito. Il film, che esaurisce l’esile trama del suo breve omologo animato, lavora per accumulo, inserendo a forza nella storia l’elemento umano, che rimastica elementi dickensiani alternandoli a una raffigurazione del circo esangue e appiattita. La comunità di freaks che popolava la scena finale di Big Fish e che imponeva il fascino della diversità, giocando con l’arte combinatoria e perturbante delle deformità fisiche come fosse una foto di Diane Arbus, si tramuta nel circo di Dumbo in un gruppo di saltimbanchi dalla superficiale caratterizzazione narrativa (costruita dalla recitazione caricaturale di quasi tutto il cast più che dalla scrittura dei personaggi), utile solo a indirizzare l’evolversi della storia verso la sua ovvia conclusione, senza peraltro schivare un numero inconcepibile di improbabilità narrative che rendono il volo di un elefante la suggestione meno inverosimile del film. Il parallelismo tra il cucciolo di pachiderma e i due bambini protagonisti, orfani e quindi solidali con l’animaletto a cui è stata strappata la mamma, rende banalmente simbolico il percorso di caduta e resurrezione di Dumbo, facendogli perdere il valore di rivalsa di sé in nome di un mammismo convenzionale e zuccheroso. Burton, paradossalmente, invece di sabotare la morale disneyana dall’interno (come fece genialmente con il mito natalizio, assieme a Henry Selick, in Nightmare Before Christmas), la eleva all’ennesima potenza soffocando anzi le spinte più indecifrabili e affascinanti che regalavano ai modelli classici una sorta di doppiezza sfuggente che li rende ancora oggi inimitabili. Come già accadeva in Alice, Dumbo affastella (ripetendo scene come mantra, pompando a dismisura la colonna sonora enfatica e autoreferenziale di Danny Elfman, gonfiando snodi narrativi e soluzioni stilistiche) e si inceppa, cerca la meraviglia generando un senso di eccessiva sazietà che induce alla sonnolenza, enfatizza i personaggi fino ad annullarli, cerca di guadagnarsi l’attenzione attraverso una pirotecnica dilatazione di immagini suoni e colori davanti a cui l’animazione bidimensionale dei classici disneyani ci appare come una magnifica dimostrazione di quanto, almeno nel cinema, le dimensioni non contino, comunque non più dell’anima.