Everything Everywhere All at Once dei Daniels: tutto ovunque contemporaneamente

Everything Everywhere All at Once, ovvero “tutto ovunque contemporaneamente”, ha incassato 100 milioni di dollari inattesi, diventando il più grosso successo della benemerita casa di produzione A24 che ha all’attivo alcuni dei migliori horror recenti, quali Hereditary e X: A Sexy Horror Story. Inattesi perché il film, inizialmente distribuito con titubanza, era stato concepito come “avventuroso di nicchia”, una specie di versione aggiornata di The One di James Wong con al posto di Jet Li Jackie Chan, per il quale era stata scritta la parte poi andata a Ke Huy Quan, il marito di Evelyn, e quindi plasmata sulla commedia marziale tipica del divo cinese. Con lui Michelle Yeoh aveva lavorato nel leggendario Police Story 3, un capolavoro del cinema d’azione con stunt rivoluzionari. Resta lo stile à la Jackie Chan ma contaminato con mille altre cose care ai due autori Daniel Kwan, sinoamericano, e Daniel Scheinert, ovvero i Daniels come sono conosciuti artisticamente (videoclip di band indie nel loro cv). Hanno cominciato a pensare al concept di Everything Everywhere All at Once nel 2010, superando vari momenti di frustrazione quando si accorgevano che pure altri, con budget enormi vedi Spider-Man, si occupavano di multiverso.

 

 

Il film racconta di una donna, Evelyn, Michelle Yeoh, immigrata cinese in America con ancora qualche difficoltà con la lingua, sposata al goffo Waymond che vorrebbe divorziare e incapace di accettare l’omosessualità della figlia Joy. Durante un incontro con l’arcigna funzionaria dell’agenzia delle entrate Deirdre, la sempre magnifica Jamie Lee Curtis, un alias ben più dinamico del marito si manifesta rivelando l’esistenza di un multiverso dove esistono versioni differenti di sé. Lui viene dal cosiddetto alfaverso dove è possibile il verse-jumping, ovvero il passaggio da un mondo all’altro, ed è lì per reclutare la donna, ignara di avere talenti straordinari in qualche parte del “suo” multiverso, per combattere Jobu Tupaki, l’alfa versione malefica di Joy capace di sperimentare tutti gli universi contemporaneamente. La trama è complicata ma solo in apparenza, in verità ogni mondo-sequenza risponde a regole proprie abbastanza coerenti, come gli step di un videogioco, e ci si perde più a raccontarla che altro.

 

 

I Daniels tentano una riflessione sofisticata sul multiverso, la suggerisce l’alfa Waymond in un momento-spiegone: la mente frammentata della Joy cattiva ha coscienza di ogni altro sé ma non più della verità oggettiva, chiamiamola realtà, e questo le ha fatto perdere il senso morale. In fondo la diffusione della post-verità nel dibattito politico o parascientifico della nostra contemporaneità non si discosta molto da questo meccanismo “narrativo”, basta sostituire il concetto di multiverso con quello del “meta” virtuale nel quale annegano (e ci annegano) i social, e il gioco è fatto. Everything Everywhere All at Once sta avendo in Italia anche energici detrattori. Posto che la loro negatività mi pare degna di miglior causa, è pur vero che alzando l’asticella dell’ambizione, e qui è altissima, anche le critiche sono proporzionate. Il difetto del film è nello stile dei Daniels, un eccesso di ironia nerd con la quale sono trattate le singole componenti di un’opera che già si presenta suddivisa in segmenti, tipo giocattolo componibile. Per cui i vari riferimenti diventano semplici parodie di qualche cosa: del cinema di arti marziali, della sit com, di Wong Kar-wai, del racconto per teenager e infine della Marvel (coproducono i fratelli Russo di Avengers: Endgame). Con un approccio simile, e una complessità un po’ artificiosa, il rischio è quello di stufarsi ben prima di arrivare al centoquarantesimo minuto dell’agognato “the end”.