È ancora una storia di famiglia, quella al centro del terzo film di Baya Kasmi, come l’esordio di Vengo subito. Ma è anche il racconto di un nucleo senza un baricentro, che vive in un camper, spostandosi di luogo in luogo mentre il passato (e la burocrazia) li insegue, un po’ come era capitato alla stessa Kasmi quando, a tre anni, era stata rimpatriata in Algeria da uno stato francese che aveva rifiutato ai suoi il permesso di soggiorno. Presentato al Bif&st 2025 nella sezione Meridiana, Mikado segue perciò il peregrinare dell’eponimo padre, della madre Laetitia e dei due figli, la maggiore, Nuage, e il minore, Zéphir, il cui vagare è infine arrestato dal collasso della batteria del van. Per fortuna i quattro trovano soccorso in Vincent, un professore che permette loro di soggiornare nel suo giardino in attesa dei pezzi di ricambio e che vive un momento difficile per la morte della moglie, fatto che mina alle fondamenta anche il rapporto con la figlia Théa. Attraverso le dinamiche che si instaurano nel gruppo, Kasmi illustra così un racconto di figli, che del complesso insieme di doveri e regole sono quelli che più hanno a patire, nonostante il dinamismo della giovane età spesso ne mascheri i reali pensieri. La trasversalità dello sguardo autoriale permette di allineare la storia di Nuage, che vorrebbe una stanzialità e che trova nel momentaneo soggiorno da Vincent una (im)possibile prospettiva, a quella dello stesso Mikado, che ha alle spalle un rapporto traumatico con chi lo ha cresciuto e chi, prima ancora, lo aveva abbandonato.
Tutto si consuma all’interno di spazi ben delimitati: quelli chiusi come il van o le prigioni in cui potrebbe finire Mikado, e quelli aperti come la casa di Vincent, che pure l’uomo non sente totalmente proprio perché è l’abitazione ereditata dai genitori. Ma anche quelli a metà, come la scuola in cui Nuage si infiltra per provare per un momento a vivere l’esistenza degli altri. Il conflitto si articola così attraverso l’opposizione fra la determinatezza dei luoghi sociali e gli spiragli da aprire per infiltrare la vita, dove Mikado cerca di ristabilire la sua verità scrivendola su carta (ma senza poterla leggere), mentre Nuage sogna nuove possibilità attraverso i libri che divora avidamente, perennemente alla ricerca di uno sguardo o un elemento trasversale in grado di rompere le dicotomie. Lo stesso cerca di fare l’autrice sul tono del racconto, che pur affrontando grandi drammi esistenziali, è visivamente caldo, accogliente, mentre il ritmo cerca sempre di lavorare sul filo d’equilibrio tra l’entusiasmo “infantile” e genuino del gruppo che si ritrova insieme e i piccoli drammi che la precarietà delle loro esistenza naturalmente genera. Mikado è per questo un film lieve ma non fatuo, che staziona fra l’anelito di libertà dei nomi dei due ragazzi (nuvola e zefiro) e l’equilibrio precario dell’eponimo passatempo dei bastoncini da raccogliere che vediamo per un attimo usato dal protagonista.
Un film empaticamente vicino ai suoi personaggi ma ugualmente equidistante da tutti loro per comprenderne la complessità. L’insieme funziona grazie alla progressiva negazione dei ruoli, perché lentamente tutto si rivela come una dinamica tra i figli di oggi e quelli di ieri. I primi stazionano nell’indeterminatezza imposta dai genitori e cercano il proprio spazio in un mondo da cui sono avidamente attratti, ma che devono conquistare a fatica. Gli altri sono quelli già determinati dal peso della vita e che per questo cercano la mancanza di responsabilità, fuggono e potranno trovare la loro pace solo quando saranno fisicamente fermi e fermati. In questo modo, Mikado diventa pure un gioco di corpi attoriali. Un meccanismo che si muove fra l’irrequietezza nervosa e umbratile del padre in perenne ansia da prestazione di Félix Moati e quella più golosa di vita della Nuage di Patience Munchenbach. Oppure tra la malinconia inerte del Vincent di Ramzy Bedia, attore feticcio della regista, il carattere più volitivo e protettivo della Laetitia di Vimala Pons e la scontrosità apparente della Théa di Saul Benchetrit. A tratti sembra un film di Claire Denis alla 35 rhums, di sicuro è una bella prospettiva per raccontare la complessità di un mondo in movimento ma frenato dalle più classiche dinamiche universali.