Storia di fantasmi francesi: proviamo a vederlo così, come fosse un gotico sbagliato e ribaltato in commedia familiare. Anche perché la cosa davvero bella di Hors du temps, il nuovo film di Olivier Assayas (tra le visioni migliori del Concorso della Berlinale74), è che sta sempre due passi avanti e uno di lato rispetto a qualsiasi attesa si possa avere da una storia autobiografica chiusa nel pieno del lockdown, quando paranoie e solitudini si sposavano a riunioni forzate e bisogno di certezze. Gli elementi del gotico, in effetti, ci sono tutti: c’è la villa di famiglia che accoglie i protagonisti e li trattiene nel suo incantesimo, c’è il male che aleggia sotto forma di virus, ci sono le paure che articolano spettri e paranoie, c’è il mondo fuori che è escluso eppure rappresenta la salvezza…
Ma poi Hors du temps è ovviamente l’opposto di tutto questo, perché si conclude nel piacere di un cahier intime che di intimo, personale, ha tutto e il contrario di tutto: Assayas parla di sé e del suo lockdown trascorso assieme al fratello e alle loro compagne nella casa d’infanzia, ma lo fa su una sceneggiatura scritta sì durante il confinamento, ma in stato febbricitante, mentre ha appena finito di scrivere per A24 il pilot e la bibbia della serie di Irma Vep… E allora sbarella tra la presa diretta delle sue paranoie, l’astrazione della realtà sospinta fuori campo e l’ossessione del set in cui si ritrova recluso. Che genera (proprio come accadeva nel primo Irma Vep) la confusione tra l’interprete e l’interpretazione, tra la scena e la vita, tra il corpo e la sua incarnazione…Se poi si pensa che, quando si è trattato di girare il film, Assayas in quella stessa casa ha anche fatto entrare tutta la troupe, è facile capire che Hors du temps è stato anche un dans le cadre, in quel tipico processo di sovrapposizione e inversione degli elementi che fanno il gioco della messa in scena nel cinema di Assasyas, tra finzione e realtà, tra autobiografia e memoria condivisa.
Tant’è che si guarda Hors du temps e si pensa a Qualcosa nell’aria, altro grande slittamento di piani tra esperienza vissuta e ricostruzione filmica, secondo quel processo che rappresenta un po’ il perno su cui si avvita il suo cinema: Sils Maria, Personal Shopper… Tutti doppi corpi che anticipano il gioco che Assayas mette in atto in Hors du temps su se stesso, chiamando Vincent Macaigne a fare Paul, che è la sua reincarnazione davanti ai suoi occhi…Sicché il fuori tempo del film è il fuori luogo della realtà, mentre tutto diventa un vago vaudeville in fuga dal mondo, con i caratteri che entrano ed escono di scena portandosi dietro le loro ossessioni: Paul, il regista famoso, terrorizzato dal Covid e avvinghiato alle norme di sicurezza impartite dalle autorità; suo fratello Etienne (Micha Lescot), che invece mal sopporta le paranoie e le regole imposte; e poi le loro compagne, Morgane (Nine D’Urso) e Carole (Nora Hamzawi), che dispongono sulla scena domestica sentimenti e pazienza. Il chiacchiericcio è divertente, la voce narrante del regista incombe hors du cadre, impartendo a Hors du temps spiegazioni su luoghi, relazioni e reazioni. E disseminando qua e là false informazioni, spiazzamenti di senso… Gioia del cinema che è gioia del filmare anche quando tutto è semplice, tutto è disposto in trascrizione filmica. Fuori dal tempo ma indiscutibilmente dentro il cinema…