Figli del sole di Majid Majidi e la rimodulazione della realtà

Il persiano Majid Majidi (Baduk, I bambini del cielo, Baran) si ispira alla storia di una scuola di Teheran; sostiene di aver concepito il film all’insegna di tracce più documentaristiche che di fiction, con il cuore dalla parte dei 250 milioni di bambini lavoratori nel mondo, tantissimi dei quali in condizioni gravemente rischiose. Figli del sole (Khoršid) – già in concorso alla Mostra di Venezia 2020 – delimita la questione in una geografia urbana iraniana, converte il dramma in un percorso di dispersione e formazione emotiva, di amicizia solidale e innocente; sposa la causa dei suoi protagonisti e cerca una narrazione che sia all’altezza dei loro occhi, del loro sguardo rapido – ma non di superficie – sulle cose. Non un film di denuncia sociale, allora, ma un ritratto di bambini/adolescenti; non un film doloroso e disperato, ma puro e protetto racconto d’avventura; non un prelievo cronachistico né una rielaborazione critica, ma una rimodulazione lieve e quasi favolistica della realtà. E un cast di attori ma soprattutto non-attori, di ragazzi chiamati a interpretare storie a loro tutt’altro che ignote, indirettamente o direttamente appartenenti al proprio vissuto (come, ad esempio, nel caso dei bambini che interpretano Zahra e Abofazl, fratelli afgani sullo schermo e nella vita). I Figli del sole sono Ali e i suoi amici, che sopravvivono, e lo fanno ai margini del piccolo grande mondo che li ospita senza accoglierli, costretti al lavoro e a piccoli furti per guadagnare minimi spazi – per loro e per le loro famiglie, quando ci sono – di un domani che è solo quotidiano, sempre troppo prossimo, mai futuro.

 

 

C’è chi ha talento calcistico, chi matematico, chi deve proteggere i genitori da sé stessi e dalla malattia, eppure nessuno ha detto mai a questi ragazzi quanto valgono. Almeno fino a quando non verranno ammessi in una scuola che si occupa dei figli della strada. Ma Ali e i suoi tre compagni non sono lì per studiare: vogliono infatti entrare in possesso di un misterioso tesoro nascosto nei sotterranei dell’istituto, inviati in missione da un anziano criminale del luogo. Le cose, però, non andranno secondo i piani…Quasi in una circolarità difettosa, inesatta, il film inizia in un parcheggio costellato di auto a cui portare via le gomme e controllato da guardie non proprio impeccabili, per poi terminare nelle aule vuote della Sun School, con un suono inaspettato che si espande come una nuova speranza. Dapprincipio ci sono tutti, alla fine resta Ali. Nel mezzo, Majidi, autore dell’infanzia e della gioventù, riassume tutto con affettuosa e mirata efficacia, con schematismo immediato e nessi di mestiere, senza che lo spazio, le sue forme, le sue possibilità (i mondi e i loro confini, sotto/sopra, dentro/fuori), le strade, la metropolitana, la clinica in cui è “rinchiusa” la madre di Ali, la scuola e il tunnel scavato dai protagonisti possano disegnare scarti di senso e aprire scorci di un reale oltre la realtà, oltre la finzione. Sì, il regista meritatamente tratteggia appena i contorni, rifiuta di misurare i suoi personaggi e le loro storie, sta dalla loro parte, dalla parte di una vitalità che scappa da chi vorrebbe arrestarla, ma sono sempre loro – e non il film – a rischiare, a fuggire, a scavare, a perdere, a smarrirsi. Un cinema, insomma, che si mette al sicuro. E d’accordo, non è necessariamente una colpa. Solo che la levità può possedere – e dissimulare, inventare, rovesciare – in modi molteplici e intensi il contrasto, il conflitto, la vita e le sue cacce ai tesori possibili e impossibili. Qui invece forse Majidi ha trovato un tesoro senza averlo cercato.