Fine e nuovi inizi in Forever Young di Valeria Bruni Tedeschi

È un peccato che il nuovo film di Valeria Bruni Tedeschi venga distribuito in Italia e all’estero con il titolo Forever Young. Specie a confronto con l’originale francese, il bellissimo Les Amandiers, i mandorli, che richiamano sì l’omonimo teatro centrale della vicenda ma, chissà, forse anche un’immagine di morte e rinascita, di fine e nuovi inizi a cui il mandorlo allude nel mito e nel folclore. Come mandorli pronti a fiorire, anche i ventenni del film si preparano a un nuovo esordio. Tutti un po’ smarriti, ansiosi di immaginare un futuro prima che sia troppo tardi e prima di buttarsi via. La nuova scuola teatrale in seno all’iconico Théâtre des Amandiers, guidato da un giovane prodigio come Patrice Chéreau, diventa un’occasione di senso, una speranza da abbracciare e una promessa per cui lottare. Alcuni ce la faranno, altri resteranno indietro o scompariranno. Les Amandiers è anche una storia di fantasmi, di tracce e presenze di chi non c’è più, di ombre che continuano a recitare al nostro fianco, sul palcoscenico e nella vita, che poi nel film sono difficili da scindere.

 

 

Nella carrellata iniziale dei provini di ammissione è già palpabile un modo di intendere il teatro come pratica totalizzante: quella degli aspiranti attori, della commissione che li giudica, della stessa Bruni Tedeschi. Viene fuori un’attrazione viscerale per il palcoscenico che stenta a essere verbalizzata, ma che viene vissuta come ineluttabile, necessaria. È un momento di grande cinema, azzeccato nei tempi, intelligente nei dialoghi, perfetto nell’interpretazione, e che valorizza il talento dei giovani protagonisti, a partire dalla strepitosa Stella (Nadia Tereszkiewicz). Ma è anche una sequenza di ironica leggerezza, che a tratti si fa malinconica e che non può non rievocare Taking Off di Miloš Forman, una chicca del cinema americano, sfortunatamente schiacciato dalla fama dei successivi grandi successi di AmadeusHair e Qualcuno volò sul nido del cuculo. Nel film di Forman c’è un’adolescente, Jenny, che trova nei provini uno spiraglio di fuga dalla pochezza asfissiante della vita borghese. Nel lungometraggio di Bruni Tedeschi ci sono Stella, Étienne, Adèle, Victor, Stéphane, Juliette, Claire, Anaïs e molti altri: chi povero, chi ricco, chi stremato dall’HIV o alterato dalle droghe. Tutti si ritrovano catturati, spirito e corpo, nella macchina del teatro degli Amandiers a Nanterre, subito fuori Parigi, in un’avventura travolgente e spietata insieme.

 

 

È un film lento e da godere lentamente, inquadratura dopo inquadratura, battuta dopo battuta. Non ci sono colpi di scena, ma ‘solo’ un microcosmo umanissimo di gente di teatro, restituito con sincerità e asciuttezza. Forever Young è anche un film autobiografico in cui non occorre sforzarsi per riconoscere tratti e vezzi di vari personaggi reali del cinema e del teatro francese tra Stella e i suoi amici, a partire dalla stessa Bruni Tedeschi. Paradossalmente, il ritratto meno convincente è anche il più esplicito e dichiarato, quello cioè di Patrice Chéreau (Louis Garrel), all’epoca enfant prodige che avrebbe presto sfondato nel cinema e nell’opera lirica. Garrel è una sicurezza e la sua disponibilità a calarsi nel personaggio autentica, ma alla fine ciò che viene fuori è il consueto personaggio sopra le righe che reitera sé stesso senza sorprese: un genio dispotico, capace di pensieri altissimi così come di brutalizzare tutti durante le prove. Saranno proprio tutti così i grandi registi, isterici, ruvidi e visionari?

 

 

Oltre all’apertura del film, sono degne di plauso almeno altre due sequenze, che testimoniano uno stile maturo e personalissimo. Nella scena conclusiva, Stella recita in una sala prove deserta di New York, dialogando con il fidanzato scomparso. Non c’è retorica nel finale, né si cerca la lacrima facile. È un momento che esaurisce con tenerezza una storia che, come si scriveva, è di speranza e nuovi inizi, ma anche di fantasmi, di chi non ce l’ha fatta come Étienne, l’instabile e autodistruttivo compagno di Stella. E, ancora, la scena della cabina telefonica: tre amiche telefonano a un laboratorio di analisi durante le prove in teatro, prostrate all’idea di essere risultate positive al test dell’HIV, altro fantasma della storia che interviene spesso a incrinare la spensieratezza del gruppo (del resto erano gli anni in cui si diffondeva la pandemia tra ignoranza, stigma sociale e panico mediatico). Una telefonata surreale ed esilarante insieme, che culmina in un finale liberatorio sotto la pioggia.