Guardarsi e risolversi: Anne Novion e Il teorema di Margherita

Emanciparsi dall’individualismo, dalle conseguenze della solitudine, dall’inevitabile. Riappropriarsi del proprio sguardo sulla vita uscendo dagli schemi che gli altri impongono; amare, respirare una sprezzante libertà, fare i conti con i propri sentimenti, comprendere il proprio disordine, essere contro le aspettative. Guardarsi e risolversi. È lo spunto che anima Il teorema di Margherita, terzo lungometraggio di Anne Novion, film che si aggiunge coerentemente al percorso della regista franco-svedese, da dieci anni assente dalle scene. Dopo Il viaggio di Jeanne, convincente esordio in cui si raccontava l’avvicinarsi di padre e figlia grazie ad un improbabile viaggio in Svezia condiviso tra incontri, convivenze forzate e stranezze e dopo il road-movie di Rendez-vous a Kiruna, racconto più teso e denso in cui la coppia di circostanza formata dagli opposti Ernest e Magnus restituiva una mappatura delle emozioni umane tutt’altro che decifrabile e prevedibile, in questo terzo lungometraggio la regista indaga le possibilità di reazione e trasformazione dell’essere umano, il suo comportamento e, ancora una volta, le sue emozioni, a partire dal confronto-scontro con il proprio talento, la condanna del successo, il confronto schiacciante con la società perfezionista e competitiva, l’idea di fondo che esistere implica un rendere conto più che un realizzarsi e puntare alla felicità.

 

 
Per Margherita (Ella Rumpf), brillante studentessa di matematica presso la Normale Superiore, il futuro sembra essere già pianificato: unica donna del suo corso, sta per terminare la tesi che dovrà esporre davanti ad una schiera di ricercatori. Ragazza apparentemente forte, aggrappata alle proprie certezze ma con la paura di aprirsi agli altri. Succede l’imprevedibile, qualcosa va storto e la dimostrazione non riesce, un piccolo errore fa crollare tutte le sue sicurezze. Margherita decide quindi di mollare tutto e ricominciare da capo, un evento non programmato che la condurrà a lasciarsi andare e a trasformare la sua vulnerabilità in forza. Abbandonata dal professor Werner (Jean-Pierre Daroussin), fino a quel momento suo padre putativo, stringe la prima amicizia della sua vita con Noa, una ragazza che vive per la danza. Dopo anni dedicati solo allo studio, Margherita dovrà imparare a destreggiarsi anche nelle relazioni e a confrontarsi con alcune incalcolabili variabili. È un film politico, Il teorema di Margherita, che guarda in faccia la società e i suoi modelli, che affonda il dito in più di una piaga e quindi non semplicemente un film “sulla matematica”.

 

 
Piuttosto, è un coming of age e non quindi un film sull’ossessione di Margherita (né John Nash né Will Hunting), proiettato a mettere in luce i desideri e le speranze di una giovane donna che, a partire dal dolore di una delusione, è come se rinascesse e iniziasse a vivere: la casa, il lavoro, il sesso, i tentativi relazionali, le cadute, la ripresa, e poi, dove si deve andare? Facile accostarlo a La sala professori, di İlker Çatak, ma ha poco senso. Più giusto guardarlo insieme a Il primo anno di Thomas Lilti e a Un anno difficile di Nachache e Toledano, graffianti incursioni nella società francese, film attenti a coniugare il grottesco e l’orrido, a fotografare inquietudini e contraddizioni di un mondo che fatica a stare al passo dei tempi, a farci sorridere a denti strettissimi, in maniera analoga a quanto tentato dalle nostre parti con i vari Smetto quando voglio (lì sono le sostanze stupefacenti, qui il mahjong).

 

 
Come sostiene la Novion, questo è un film che abbandona i tempi dilatati e i toni lievi dei precedenti, dallo stile più espressionista perché: «Margherita è un personaggio schietto e immediato». Infatti il film inizia con alcune riprese della Scuola Normale Superiore, quasi monocromatica, silenziosa: «le cornici sono geometriche, per riprendere l’ordine che prevale in questa Istituzione». Poi sopraggiungono il disordine e l’irrazionalità, proprio come nella vita di Margherita, a partire dall’incontro con Noa, «compaiono più colori, più riprese a mano libera, più movimenti di camera che sembra ad un tratto anche più leggera». Al netto di semplificazioni che ridimensionano il percorso della protagonista verso la conquista della propria identità, e di alcune idee forzate che accostano “una matematica” e “una ballerina” nella commedia degli opposti (… ma non si volevano abbattere le etichette?), il film di Novion è capace di esprimere con forza il senso di smarrimento e disconnessione vissuto da Margherita, figlia di un tempo vorace, a sua volta vittima di sé stessa: non tanto schiacciata dal proprio talento quanto dalla convinzione impostale dal mondo esterno che avere un talento significhi necessariamente corrispondere alle aspettative degli altri. Questa è la conquista del film: accompagnare lo spettatore a considerare la riscrittura di una vita ottenuta da un’autentica rivoluzione, quella di Margherita che finalmente ha visto per cosa lottare.