I rischi dell’ospitalità: al BIFFF42 il coreano 4PM di Jay Song

Cortesie per gli ospiti, con ricaduta da incubo: non che ci sia nulla di soprannaturale, ma nel sudcoreano 4PM di Jay Song, presentato in prima mondiale al BIFFF42 di Bruxelles, la tensione monta inesorabilmente ed è tutta una questione di relazioni e di buone maniere da rispettare. Per quanto perfettamente coerente con l’assetto delle convenzioni sociali asiatiche, la matrice del film in realtà è belga e porta la firma della prolifica scrittrice di best-seller Amélie Nothomb, dal cui romanzo Les Catilinaires  (da noi Le catilinarie) il film è tratto. Pensatelo come un thriller psicologico a ebollizione lenta, il film assicura il coinvolgimento grazie alle questioni che pone, capaci di tenere lo spettatore attaccato al meccanismo basilare di identificazione: c’è un pacato professore di filosofia che intende passare il suo anno sabbatico con la moglie nella villa in periferia che ha appena acquistato. Silenzio, natura, luce crepuscolare che ben concilia il riposo e la serenità, magari col supporto di una tazza di tè e il tempo di una meditazione yoga pomeridiana. Ma i rapporti di buon vicinato infrangono la quiete e il biglietto di saluto lasciato al dottore della casa accanto si trasforma in un incubo governato dalla cortesia e in una sorta di sfida psicologica: l’uomo infatti ogni giorno, alle quattro del pomeriggio in punto, bussa alla porta della coppia, si siede silenzioso sul divano, con aria stolida risponde per monosillabi ai tentativi di conversazione del suo ospite, beve il suo tè e alle sei in punto si alza e va via, senza salutare. Il classico convitato di pietra, insomma, che, se non annuncia morte, porta comunque nella quotidianità ordinata e garbata del professore lo spettro di una vita che soggiace al peso della sofferenza, alla gravità delle relazioni che ignorano la cortesia e la gioia e si basano esclusivamente sull’obbligo e sul dolore.

 

 
Inutile per il professore e sua moglie tentare di sfuggire al destino che hanno attirato col loro invito, perché la cortesia, nel mondo dello sventurato vicino, non è contemplata: ci sono solo, come scopriremo, il dolore di un figlio morto da bambino e la sofferenza di una moglie obesa e depressa sino alla catatonia da accudire giorno dopo giorno. Quello che quotidianamente, perentoriamente e ineluttabilmente il dottore porta in casa del vicino per due ore è il peso del dolore, l’obbligo di mettere da parte l’ipocrisia della cortesia, la facciata della serenità e la logica delle relazioni sociali per far fronte alla categorica necessità di subire la soffocante presenza della sofferenza. Le conseguenze saranno estreme e Jay Song costruisce questa rappresentazione con una ritmica drammaturgica e psicologica prolungata ma inesorabile, che attende il tempo giusto sia per far precipitare il protagonista nella concretezza del suo incubo, sia per attivare la sua reazione, che avrà maniere ovviamente antisociali e assumerà su di sé tutto il peso di una responsabilità di fronte alla sofferenza che la sua umanistica serenità filosofica mai avrebbero potuto contemplare. Lo schema nella seconda parte assume funzioni e logiche degne dello Stephen King più psicologico, e il film diventa un ordigno pronto a attivare le conseguenze delle posizioni morali e sociali in cui ci si muove quotidianamente. L’impianto teatrale è evidente, ma non grava più di tanto sulla resa finale di un film che supera lo schema a tesi psicologica per trovare una sua forza drammaturgica.