I sorprendenti scivolamenti di senso e la costruzione del destino in Toy Story 4 di Josh Cooley

Anni fa, quando Woody e i suoi amici vivevano tranquilli nella stanza del loro proprietario originale Andy, la pastorella Bo Peep – scomparsa nel film precedente e qui recuperata attraverso una backstory drammatica – aveva subito il trattamento che tutti i giocattoli temono di più: essere considerata ormai inservibile. Era stata regalata a un’altra bambina, prima degli avvenimenti del terzo capitolo della saga nel quale questo destino capita a tutti i protagonisti, vittime – loro immutabili o quasi – della crescita altrui. Questo prologo – che già mostra progressi tecnici rispetto agli altri capitoli e che comprende un addio straziante tra Bo e Woody – sembra slegato dalla prima parte di Toy Story 4, in cui Woody e gli altri, ormai adottati dalla piccola Bonnie, vivono una vita serena, mescolati agli altri giocattoli che hanno trovato nella loro nuova casa. Certo, per Woody non è semplice dover abdicare al suo ruolo di primus inter pares che ricopriva nella stanza di Andy, ma il cowboy cerca, attraverso un controllo ossessivo dei bisogni della sua nuova proprietaria, di esorcizzare le ansie da eroe diminuito. Bonnie è destinata al suo primo giorno d’asilo e Woody, che trova una ragion d’essere solo rispetto alla dedizione ai “padroni”, la segue di nascosto e pensa di proteggerla. Bonnie, superato lo spaesamento iniziale, si dedica a dei lavoretti, costruendo con una manciata di rifiuti un giocattolo tutto nuovo: Forky, una forchetta di plastica con occhi di riciclo e due zeppe di legno come piedi. È un giocattolo che però, non essendo “fatto” (letteralmente) per essere un giocattolo, rifiuta inizialmente la sua posizione cercando di gettarsi in ogni secchio della spazzatura, che lui immagina come casa.

È qui il primo scivolamento di senso che fa di Toy Story 4 un film affascinante e denso e non una semplice appendice al già perfetto finale del terzo capitolo. Per Woody e i suoi compagni essere giocattoli è un privilegio, un vanto macchiato solo dalla preoccupazione di diventare, un giorno, “roba passata”. Per Forky è invece una condanna calata dall’alto, che non capisce: Forky è rudimentale e anarchico (e stilisticamente rozzo, come alcuni personaggi dei primi cortometraggi Pixar) e a lungo rifiuta il suo ruolo. Il compito di Woody è di educarlo a una normalizzazione, in nome del suo solito – ridondante – senso di responsabilità: se lui non può essere il giocattolo preferito, come accadeva con Andy, allora deve ergersi a protettore del prediletto di turno, una via di mezzo tra angelo custode e grillo parlante. Il secondo atto del film però introduce un altro elemento che ipotizza la possibilità di una rottura: in viaggio con Bonnie e i genitori, in un negozio di antiquariato posto accanto al luna park meta del viaggio, Woody riconosce un pezzo della lampada di Bo, e decide, infrangendo le regole imposte dal suo senso del dovere, di compiere un detour in cerca della vecchia amica. Visivamente strabilianti, le lunghe sequenze all’interno del pawn shop permettono agli autori (Josh Cooley alla regia; Andrew Stanton e Stephany Folsom alla sceneggiatura) di approfondire attraverso l’uso estensivo dei generi sia richiami ai capitoli precedenti (il destino che ti confina a uno scaffale e ti separa dal tuo ruolo “esistenziale”, al centro di Toy Story 2) che citazionismi sfrenati (i pupazzi da ventriloquo che rimandano all’episodio del capolavoro Ealing Dead of Night, diretto da Alberto Cavalcanti nel 1945, ma anche il gatto killer, pronipote dei perfidi felini dei classici Disney, da Cenerentola a Lilli e il vagabondo, o il carousel del luna park che rimanda all’hitchcockiano Delitto per delitto) fino a un omaggio “utilitaristico” alla pellicola cinematografica, usata come una fune che regala salvezza. La parte centrale del film è segnata – e questa è una novità nella serie di Toy Story, ma più in generale nella filmografia Pixar – dalla presenza e dalla caratterizzazione di due personaggi femminili: la ritrovata Bo, ormai libera da ogni forma di schiavitù e giocattolo realizzato in una propria forma di libertà, e l’apparentemente perfida Gabby Gabby, una bambola con difetto di fabbricazione inacidita dalla vita e desiderosa di provare, almeno per una volta, l’affetto di una bambina. È a loro che gli autori delegano le decisioni che muovono la storia, in pieno stile #metoo, senza però usarle in maniera pretestuosa, anzi aggiungendo dei felici momenti di incapacità ai personaggi storici della saga, qui spesso semplici spettatori o goffi guastatori. Fa eccezione un altro “diverso”: Duke Caboom, un motociclista canadese che trova un senso alla propria esistenza – segnata, in maniera ironica, dalle menzogne del marketing – agendo come vero e proprio deus ex machina in un commovente momento di agnizione. Toy Story 4 ha il coraggio di mettere in un angolo, facendoli agire come una sorta di coro, i protagonisti storici – Buzz Lightyear è un comprimario, sempre alle prese con una sorta di coscienza pavloviana – per donare la ribalta a personaggi sghembi, imperfetti ma capaci di scendere a patti non solo con la propria coscienza e i propri desideri ma anche con il mondo che li circonda e che sta cambiando. La parte finale del film, perfetta conclusione di una lunga storia fatta di dedizione e devozione, è invece – e questo è il senso ultimo e più coraggioso dell’intera operazione – dedicata alla costruzione di una nuova immagine di sé: Woody, Gabby Gabby, Bo sono presenze attive, finalmente capaci di ribellarsi ai ruoli precostituiti, al destino che plasma le loro mosse. In Toy Story 4, alla fine di un lungo viaggio, sono i giocattoli che imparano a decidere in autonomia, sciolti finalmente dal vincolo di fedeltà che li aveva accompagnati (e compressi) in tutte le loro scelte precedenti, liberi di vivere una vita che, per loro fortuna, noi non potremo vedere.