Il caftano blu di Maryam Touzani: silenzi e sfioramenti

Nella medina di Salé, in Marocco, il sarto Halim (Saleh Bakri) e la moglie Mina (Lubna Azabal) conducono un’avviata sartoria artigianale. Lui nel retrobottega, metro al collo e ago e filo in mano, lei al banco, a tener testa a fornitori e clienti pressanti. Uomo paziente e silenzioso, Halim lavora su commissione a un pregiato caftano blu, decorato da ricami con fili d’oro che pochissime mani sanno ancora realizzare a regola d’arte. Quando il giovane Youssef (Ayoub Missioui) si propone alla coppia come apprendista, Halim è quindi felice di potergli insegnare un mestiere e di alleggerire il carico di lavoro di Mina, affaticata da tempo da una malattia.

D’altra parte, Mina intuisce subito che marito e lavorante sono turbati da quella convivenza. Lo sa, perché il loro lungo, affettuosissimo, solido matrimonio è fondato anche su non detti e scambi di sguardi che sembrano romanzi. In Marocco un uomo che desidera un altro uomo non solo compie un reato, ma è una vergogna e un disonore per la sua sposa. Ciò che non può avvenire in società, Halim lo trova nell’hammam, per pochi dirham di sapone nero. Senza togliere un briciolo d’amore, rispetto e riconoscenza a Mina.
 

Attrice e sceneggiatrice nata a Tangeri nel 1980, prima di Il caftano blu Maryam Touzani ha scritto e diretto Adam, ambientato a Casablanca e interpretato anch’esso da Lubna Azabal. Prodotto dal marito Nabil Ayouch, anche lui regista, è stato selezionato nel 2019 in Un certain regard a Cannes.

Candidato dal Marocco agli Oscar nel 2020, è inedito da noi. Il caftano blu, distribuito nelle nostre sale da Movies Inspired, è affresco di un amore maturo, saggio sulla solidarietà del patto matrimoniale, che si mobilita e si rafforza nei momenti più estremi.

Premio Fipresci in Un certain regard 2022, il suo titolo originale è Le blu du caftan. Una tonalità petrolio (non “blu reale”, come puntualizza Halim alla cliente). Un tessuto e un colore che occupano matericamente tutti i titoli di testa. Un mare morbido e lucente che tiene in sé altri cromatismi e abbaglia, assorbendo la luce e gli sguardi di chi lo ammira.

Così fa il film, giocato quasi tutto addosso ai corpi, con inquadrature strette e in una penombra di interni familiari. Una condizione di luce chiaroscurale che è svelamento progressivo di affetti, biografie, paure, relazioni. Una cosa è la società fuori, che chiede ordine e abiti consegnati in fretta per una ritualità solo esteriore, svuotata del suo senso di sacro. Un’altra è il nuovo, fragile equilibrio formato da Halim, Mina e Youssef, fabbricanti di un inedito assetto ancora tutto da immaginare, per quella società.

“Un caftano deve sopravvivere a chi lo indossa, passare di madre in figlia, superare la prova del tempo”, dice Halim. Attorno a quel vestito tradizionale, a tutti gli effetti protagonista del film e motore drammatico, avviene un passaggio di sapere tecnico (l’arte sartoriale) e al tempo stesso un passaggio di amore. Uno non può esistere senza l’altro. Nell’aggravarsi del suo male, Mina ne ha consapevolezza prima di tutti, lo prepara, lo fa accadere.

Accadrà tramite la violazione di un rito, in un’uscita alla luce. In un movimento verso il mare, finora solo respirato tramite la brezza che raggiunge anche i vicoli più angusti. In questo eccezionale esperimento erotico tutto è sussurrato, di continuo. Le parole spese sono solo quelle necessarie. Il resto è affidato all’immaginazione di chi guarda e ascolta, in un film stracolmo di grazia. Che si fa spesso evocazione multisensoriale, perché lo stupore per bottoni cuciti a forma di fico ha la stessa potenza dell’inattesa dolcezza di un mandarino sbucciato. La sensazione tattile dell’accarezzare, saggiandolo, un tessuto, è anticipazione, attesa e completamento della vista emozionante di una schiena nuda.