Il genius loci e gli introvabili sentimenti familiari in Il silenzio grande, di Alessandro Gassman

Di quale altro colore,
che non si perda l’essenziale che sono
-lisce, senza bisogno di niente?
Gente diversa ama appendervi i quadri,
abbracciarvi rampicanti, fare ombra
con lampade astratte. Ma è gente
che le teme, vuole sentirsi
indispensabile anche a loro:
che non hanno bisogno di niente.
Le ho lasciate come sono, bianche.

Alida Airaghi, da L’appartamento (1984)

 

Come dire, il teatro è nel sangue dei Gassman ed è in quella sua aura che sa diventare spettrale che si sviluppa anche il cinema di Alessandro Gassman e Il silenzio grande, in cartellone all’ultimo Mostra del Cinema di Venezia alle Giornate degli Autori, conferma questa predisposizione e anzi ne accentua i toni, ridefinendo il percorso del regista e attore. Un cinema, il suo, che per queste ragioni, almeno in questo film, non sa affrancarsi dalla scena e dalla sua costruzione, non sa vivere senza il dialogo serrato proprio del teatro rappresentativo, non sa allontanarsi da quella decantata polvere del palcoscenico, che per altre ragioni, viaggia libera nei controsole di questo film. Ma non è detto che queste siano per forza delle debolezze del film, anzi, al contrario, diventano temi in relazione alle modalità di approccio del tutto personali rispetto alla rappresentazione, una specie di marchio di fabbrica, un sigillo particolare, un individuale ex libris. Di recente il cinema italiano ci ha offerto due film che posseggono uno spiccato e voluto impianto da scena teatrale, entrambi presentati in anteprima al Festival della Laguna, uno è questo di Gassman, l’altro il magnifico Qui rido io di Mario Martone. Ma laddove Martone opera sul cinema per dissimulare il teatro che a piene mani si coglie nel suo coloratissimo film dedicato a Eduardo Scarpetta, il regista e attore romano lavora in senso opposto dissimulando il cinema dentro un percorso prettamente teatrale. Entrambi i film, pertanto, pur nella diversità degli intenti, partono dai due dati comuni del cinema e del teatro, laddove Martone, uomo eminentemente di teatro mimetizza il cinema riversando il racconto dentro una messa in scena prettamente cinematografica, Gassman, uomo di spettacolo conosciuto prevalentemente per il suo lavoro al cinema, sembra utilizzare il mezzo per fare rivivere il teatro con una rappresentazione che ne richiama il senso sia nella formazione della scena, con la centralità propria del luogo teatrale, sia nel succedersi degli eventi con i personaggi che escono dalle quinte e le scene-sequenze segnate dai sipari che preparano il progredire della storia. All’origine de Il silenzio grande vi è il soggetto di Maurizio De Giovanni – che ne cura anche la sceneggiatura insieme allo stesso Gassman e Andrea Ozza – che ambienta la vicenda in una Napoli appartata e tutta racchiusa dentro l’appartamento dove vivono Valerio Primic (Massimiliano Gallo), famoso scrittore, sua moglie Rose (Margherita Buy) e i due figli Massimiliano (Emanuele Linfatti) e Adele (Antonia Fotaras). Una villa di prestigio come esige la fama dello scrittore che con il passare del tempo diventa cadente, come la vita dei suoi occupanti, piena di debiti e di paure per il futuro, anche perché qualcosa non funziona più nelle opere dello scrittore. La domestica Bettina (Marina Confalone) è il controcanto in una situazione che sembra deteriorarsi, ma sta solo mutando. Bettina sembra essere la coscienza segreta di Valerio Primic, la voce di una onniscienza invisibile. È proprio lei, la domestica, a sottolineare il silenzio grande e ininterrotto dello scrittore nei confronti di moglie e figli che però gli confessano in segreto, l’uno la propria omosessualità e l’altra le sue frequenti relazioni con uomini sposati.

 

 

 

Ma anche Rose è vittima di questo silenzio, sempre angosciata dai debiti, il che la spinge a bere di nascosto. L’interesse dei figli per una stessa persona, un attore divenuto famoso con la pubblicità di un dentifricio, accende la voglia a Primic di parlare e di intervenire per impedire uno scontro tra di loro entrambi spinti dalla passione. Ma la saggia Bettina gli suggerisce che ormai è troppo tardi. Il film di Gassman si dibatte dentro accentuate e drammatiche dinamiche familiari che si scioglieranno in un finale esplicativo e in precedenza solo velatamente suggerito e una tensione rappresentativa che altrettanto efficacemente, sebbene con qualche superflua accentuazione drammatica, si agita tra l’incontenibile desiderio del teatro che a volte sembra irrigidire la scena e rendere verboso il dialogo e la volontà di utilizzare il cinema come veicolo per esaltare la centralità della scena, una centralità che si rivela essere necessariamente lo studio dell’apprezzato scrittore, pieno di libri che parlano al loro proprietario spostandosi quasi da soli, trasgredendo il principio della “omogeneità delle emozioni” che costituisce la regola secondo la quale sono disposti sugli scaffali. In questa stanza passano ad uno ad uno Rose, la moglie, Massimiliano il figlio, Adele la figlia per confessare drammi e vicende personali. Gassman si rivela sensibile e sa utilizzare il proprio cast a cominciare da Massimiliano Gallo, tra gli attori più mimetici ed efficaci sulla scena, tanto spavaldo e arrogante e fisicamente prestante in Il sindaco del rione Sanità di Martone, tanto grigio e dimesso, fisicamente fragile e curvo in questo film, dove mostra una debolezza naturalmente paterna, una sempre dubbiosa fragilità nascente dalla sua condizione di intellettuale.

 

 

 

Il silenzio grande resta un film sul passato e sul presente segnato da quanto non detto dentro il nucleo familiare e pur nella sua non spiccata originalità diventa una sincera riflessione sui rapporti familiari e in particolare sull’atteggiarsi della paternità (certamente tema non casuale per il regista) curati e governati dalla attenta Bettina, che tra una spolverata e l’altra parla al cuore irrigidito di Valerio Primic, che non vuole abbandonare la casa, i suoi libri e vive dentro un’immaginazione che a tratti si rivela intermezzo colorato nella sua vita grigia e monotona. Un film sul rimpianto, sul forte rimpianto, Il silenzio grande sembra lavorare sull’essenza delle mura domestiche come luogo dentro il quale si ritrovano i simboli familiari. La casa diventa il fulcro di sentimenti introvabili, “ho cercato i segni, i nostri segni”, dirà Rose mentre la sta lasciando ai nuovi proprietari. Il film si fa testimone di quel genius loci domestico che continuerà ad abitare segretamente quelle stanze ora disadorne, che la macchina da presa di Gassman attraversa con sguardo malinconico. Ancora una volta un film su ciò che poteva essere e non è stato, con i tratti di Cechov e le influenze, necessariamente partenopee di Eduardo De Filippo, qui citato non per dovere, ma proprio perché in questo film c’è anche il residuo di quella caotica casa Cupiello. Primic prova a tenere insieme la sua famiglia, dentro la quale fa fatica a riconoscersi. Ma forse tutto accade solo perché è trascorso troppo tempo da quando lui ha smesso di parlare e ancora una volta ha ragione la saggia e onnivedente Bettina.