Il potere delle storie: Il colore della libertà di Barry Alexander Brown

Rosa Parks, che nel 1955 a Montgomery, in Alabama, si rifiutò di cedere il suo posto sull’autobus a un bianco e non lasciò indifferente la Storia d’America, alcuni anni dopo disse a un giovane e sorpeso Bob Zellner: «Dovrai scegliere da che parte stare. E non scegliere è una scelta». Zellner oggi ha 82 anni, non passò molto tempo da quell’incontro perché scegliesse da che parte stare, e da allora non è più tornato indietro. Promettente studente dal futuro che prospettava altre strade, white son dell’Alabama razzista  – un nonno fedele fino alla fine al Ku Klux Klan, un padre che dal KKK invece si allontanò diventando pastore metodista e uomo di pace -, Zellner è stato il primo segretario operativo bianco del Comitato Studentesco per la coordinazione non-violenta, è finito in carcere svariate volte, ha lottato contro la segregazione fisica, politica, sociale e civile dei neri. Ha lottato, e continua a farlo, per un mondo più giusto, che tale ancora non è.  Il colore della libertà film tratto dalle sue vicende famigliari e collettive raccolte in The Wrong Side of Murder Creek, libro scritto con Costance Curry, attivista anche lei, morta nel 2020 – narra come tutto è cominciato, si è formato: la nascita della consapevolezza e della lotta di Bob.

 

 

 

A interpretarlo c’è Lucas Till, a dirigere è Barry Alexander Brown, regista (The War at Home, Lonely in America) e montatore (anche per questo suo film e per molti lavori di Spike Lee – qui produttore esecutivo – compreso BlacKkKlansman, basato sulla storia del poliziotto di colore Ron Stallworth, che nel Ku Klux Klan riuscì addirittura a infiltrarsi). Un’opera accarezzata già negli anni Ottanta ma che solo quasi 35 anni dopo si è realizzata. E Brown, che confida partecipe nel potere delle persone e delle storie, con un racconto ricamato su figure e significati chiaramente contornati, su personaggi sostanziati di essenziale drammaturgia funzionale, su un’affabulazione che cammina correttamente sul tema, senza inciampi o frenate, restituisce un’America perbene e violenta, drammatica e ottusa, in maniera trasparente, senza bisogno di lenti che la deformino. Gli accadimenti sono narrativamente autosufficienti, la meccanica non si preoccupa dell’insieme. Il protagonista può attraversare disarmato la folla inferocita di bianchi che colpiscono gli inermi manifestanti neri, per trarne in salvo alcuni, perché è “uguale” alla “sua” gente e nessuno si accorge che è lì per proteggere le vittime e non per aggredire.  E un po’ il personaggio sembra attraversare allo stesso modo il film: come se i cortocircuiti, le fratture, le ferite, i movimenti del tempo e della politica, della cultura e della rivolta, non si accorgessero del suo passaggio, forse perché fugace, forse perché queste onde sono registicamente sfondo fermo, più che orizzonte, al di là dell’incontro d’ordinanza tra materiale di repertorio e fiction. Un film sul conflitto ma senza conflitto.  Un cinema che non trasferisce senso ma richiamo e appello allo spettatore, un cinema senza strappi e infrazioni, che non riscrive e non rilegge. Sinceramente edificante, tipicamente e decorosamente “necessario”.