Dopo tanti anni passati a fare il suo stesso lavoro cercando di essere diversa da lui, ho voluto raccontare quanto ogni cosa che sono la devo a lui: ho voluto rendere omaggio a mio padre, al suo modo di fare cinema, al suo modo di essere, all’importanza che la sua opera e il suo impegno hanno avuto per il nostro cinema, all’importanza che la sua persona ha avuto per me.
Francesca Comencini
Un lungo viaggio nel ventre della balena, dall’infanzia, quando la piccola protagonista non vuole entrare nel tendone del circo dove, si dice, c’è una balena intera, alla maturità, quando impara a volare, e a cadere, a fallire e a riprovare. Questo, in estrema sintesi, il percorso di Il tempo che ci vuole, commosso omaggio al cinema da parte di Francesca Comencini, presentato fuori concorso all’ultima edizione della Mostra del Cinema di Venezia. E il punto attorno al quale ruotare non può che essere il padre Luigi, sempre presente come osservatore silenzioso, capace per lei di tenersi in disparte e assistere alle diverse fasi della sua crescita, ma anche di indicarle una strada di conoscenza e consapevolezza. Da bambina Francesca (ma il suo nome non viene mai pronunciato) segue il padre sul set di Le avventure diPinocchio.
A lei piace Lucignolo perché è libero e anticonformista, ma ad un certo punto resta imprigionata nello spazio del film e non sa dove correre per uscire di scena e non essere inquadrata, mentre si cerca di non perdere la luce del tramonto che infuoca tutt’intorno. La “luce a cavallo”, la chiamano, ed ecco che, mentre si nasconde dietro ad un cespuglio, le compare il padre a cavallo, appunto, con in mano una grande sfera illuminata. Come a dire che l’immaginazione e il timore sono i due poli di attrazione emotiva e visiva di questo film, denso e intenso come una lettera mandata prima di tutto a se stessa. E infatti, il punto di vista è quello che taglia fuori ogni distrazione, per concentrarsi su un padre e una figlia nell’esclusività di uno scambio flagrante di rara immediatezza. Un dialogo continuo, fatto di tanti silenzi e di accenni, ma anche di ellissi profonde e vibranti che alludono a gesti, parole, epoche di questa storia lunga vent’anni che attraversa e sfiora uno dei periodi più bui del nostro Paese. Il terrorismo, la strage di Piazza Fontana, il rapimento di Aldo Moro, la droga che dilaga tra i giovani.
“Prima la vita, poi il cinema!” ammonisce sul set Comencini, che, infatti, sarà pronto a lasciare tutto per portare a Parigi la figlia nel suo momento più fragile. Il tempo che ci vuole per tornare a stare bene, andando al cinema e passeggiando lungo la Senna. Ma il cinema è (la) vita e disgiungerli non è più possibile. E non è un caso che per il suo debutto dietro la macchina da presa Francesca vorrà fare un film proprio sui suoi anni più complicati. Il cinema come via di fuga che cura la solitudine, il cinema salvato dall’oblio e conservato con cura nella nascente Cineteca di Milano. C’è un universo di umanità e di delicatezza in questo film raccontato sottovoce e con eleganza, ma raffinato nella messa in scena e nelle scelte di montaggio. Come quando il padre scopre la figlia con l’eroina e imbastisce con lei una lunga conversazione, seduti sul pavimento del corridoio della loro casa mentre la macchina da presa li avvolge attraverso inquadrature ardite e bellissime, intime e libere, spezzando i gesti e mostrando la vertigine di uno spaesamento fino ad ora solo accennato.