Il tempo disintegrato: Cinque stanze di Bruno Bigoni

Il cinema di Bruno Bigoni si re-inventa nel suo percorso, smantellando dinamiche produttive e artistiche (consoli)date, cercando nuove forme e narrazioni. Si pensi ai testi concepiti insieme alla videoartista Francesca Lolli Voglio vivere senza vedermi (2019) e Tre donne (2021). Ora si aggiunge Cinque stanze (che ha iniziato il suo tour nelle sale da pochi giorni) che costituisce una ulteriore tappa nel di-segnare una mappa dello sguardo e della parola attorno a un pre-testo minimale (pur contenendo questioni esistenziali massimali), quello di un uomo alle soglie della pensione (indicato come K) che, per la maggior parte nel chiuso della sua casa, nelle sue stanze, rivive un passato che non smette di visitarlo attraverso le figure che hanno abitato la sua esistenza: la moglie Lara, l’amante Silvia, la figlia morta all’età di quattro anni. Tutto accade in quello che il regista definisce un “tempo disintegrato” dove, se lo spazio è quasi unico e “teatrale” (salvo alcune uscite in strada, in un parco, in mezzo a scorci di natura, o altri ambienti chiusi o, a rappresentare la moltiplicazione palco-scenica, la panchina dove il protagonista sta seduto e che si fa luogo della circolarità, in cui tutto inizia e tutto termina, o viceversa) e i personaggi, ovvero attori e attrici – tre, tutti di solida esperienza teatrale (Riccardo Magherini/K, Debora Zuin/Lara, Federica Fracassi/Silvia), più alcune presenze in ruoli minori o in veloci apparizioni (compreso lo stesso Bigoni in un cameo lungo un marciapiede, passante al telefono infastidito dalla distrazione di una donna, vale a dire Silvia colta in un momento di confusione emotiva) -, entrano e escono di scena, il tempo lineare evapora tanto all’interno del bianconero prevalente quanto del colore usato con parsimonia per evocare alcuni istanti del passato di K così come per “annullare” un “prima” e un “dopo” che non hanno più senso esprimendo, il film, la prospettiva di un uomo che vaga “perso” nei suoi “spazi mentali” (come scrive Bigoni nelle note di regia).

 

 

Ed ecco quindi che i corpi diventano fantasmi, e i fantasmi riprendono per un attimo la concretezza dei corpi (a partire dai lampi di memoria dai quali riaffiora il corpo felice della bambina). Basato su un soggetto del regista, che ha poi scritto la sceneggiatura con Beba Slijepcevic, e punteggiato di note musicali che talvolta appesantiscono immagini già di per sé dense, Cinque stanze tesse un (falso) movimento che non smette di palesarsi con un tono apparentemente pacato dentro il quale esplodono però conflitti non sanati (e alcuni non più sanabili – la morte incide una cesura definitiva) e stati d’animo ammaccati con cui si prova a fare i conti. “Cerco di dire agli spettatori che nella vita tutto è confuso, che è giusto avere punti di vista diversi su ciò che ci accade – afferma Bigoni – Ho cercato una forma ‘musicale’ fatta di tensioni e di corrispondenze che si sviluppano nel tempo, una certa circolarità senza un apparente baricentro”.