Il tempo sospeso di Touki bouki di Diop Mambety su Cinema ritrovato – Fuori Sala

Ci sono film che lasciano un segno indelebile. Touki bouki – Il viaggio della iena è uno di questi e, fino al 20 marzo, lo si potrà rivedere o scoprire per la prima volta sulla piattaforma di My Movies che ospita la rassegna Il cinema ritrovato – Fuori Sala e che ne programma la versione restaurata dal The Film Foundation’s World Cinema Project di Martin Scorsese e dalla Cineteca di Bologna.
Touki Bouki (1973) è il lungometraggio d’esordio di Djibril Diop Mambety. Un’opera che porta nella storia del cinema mondiale uno sguardo mai esistito, una libertà espressiva inedita, la necessità di affrontare questioni cruciali (a cominciare dall’attrazione per l’Occidente, dal desiderio di partire verso la Francia, già esposto nel 1966 da Ousmane Sembene ne La noire de…), sfuggendo agli stereotipi, inventando una poetica assolutamente originale. Ancora oggi, Touki Bouki rimane il testo filmico più alto e inimitabile dell’Africa sub-sahariana, nel quale converge la ricerca semantica avviata nei primi due lavori di Diop Mambety (Contras City e Badou Boy) e si dispongono elementi che ritorneranno fedelmente nei film successivi (Hyènes, Le franc, La petite vendeuse de Soleil, Parlons grand-mère). L’ironia feroce, le situazioni surreali, la decostruzione di una narrazione tradizionale sono al centro di Touki Bouki, in ogni inquadratura. Un film che, dall’inizio alla fine, fa coesistere movimento e immobilità, per esprimere l’idea di un tempo sospeso, di uno spazio dal quale non si può fuggire. Prende forma, scena dopo scena, la storia di un’utopia, della necessità del mettersi in viaggio, a qualunque costo, vissuta da due giovani di diversa estrazione sociale: il pastore Mory, che rimane imprigionato nel suo labirinto mentale e fisico, e Anta, la studentessa che si ribella al vivere sottomessa. Si amano e hanno per meta Parigi, così insistentemente evocata dalla canzone di Joséphine Baker, dove il nome della città è parola ripetuta fino all’ossessione, ironica e tragica, che spinge appunto al movimento per poi interromperlo.

 

 

False partenze continue, girotondo che i due amanti vivono per le strade di Dakar (città amata e indagata con immensa passione da Diop Mambety in tutto il suo cinema, set nel quale immergersi per scoprirne sempre nuove risorse) e nei suoi dintorni (la spiaggia e il mare, la piscina di un hotel di lusso, il porto, la nave in partenza), spazi labirintici che non liberano, che fanno ripetere a Mory e Anta gesti che li riportano al punto d’inizio. Diop Mambety lavora sui dettagli, sulle distorsioni sonore, isola nelle inquadrature degli elementi (le corna dell’animale sulla moto, una mano, il baule e gli oggetti che contiene, le insegne della viabilità al porto…) per dare loro un valore extra-diegetico, senza mai dimenticare il contesto nel quale sono inseriti, crea una straordinaria unità attraverso la continua frammentazione visiva e narrativa. È un percorso rigoroso che conduce verso l’ultimo set, la lunga scena al porto, costruita come un noir allucinato tra posti di blocco, strutture metalliche, passaggio di automobili, elaborata come una partitura che presenta, lascia, ritrova vecchi e nuovi oggetti e personaggi. C’è un pedinamento costante in Touki Bouki, e il piacere di Diop Mambety di soffermarsi su inquadrature apparentemente marginali (quelle dove si esprime con intensità il rapporto fra la terra e il cielo, e fra essi e la persona umana) che invece rivelano l’essenza più intima del suo cinema, come una firma decifrabile sottovoce nel tempo. Allucinata ballata jazz, invenzioni e scarti surreali. Le immagini esistono in un universo fantastico/realistico perché il cineasta senegalese re-inventa l’Africa, la città, spingendosi verso il mare tanto amato o, più ampiamente, verso l’acqua, che diventa luogo di confine con cui confrontarsi. Diop Mambety coglie lo sradicamento fisico e intellettuale degli africani attratti dal fascino dell’Occidente dando vita alla lampante adesione a un corpo-cinema rifuggente le convenzioni e le belle immagini, che si immerge nelle alterità, che fa del suo corpo un luogo della mutazione e del rischio, a contatto infinito con la morte e con la vita.