Il tradimento del canone jonesiano di Indiana Jones e il quadrante del destino di James Mangold

Germania, 1944. La guerra volge al termine, Hitler si è rifugiato in un bunker mentre le sue truppe ammassano in un treno casse di reperti archeologici. Il più prezioso è la Lancia di Longino, che si dice abbia trafitto il corpo di Cristo sulla croce. A coordinare le operazioni è Jürgen Voller, uno scienziato ossessionato dai potenziali poteri degli antichi manufatti. Ma, quando i nazisti cercano di piegare oggetti artistici a piani nefasti, c’è sempre Indiana Jones – in compagnia del suo collega/amico inglese Basil Shaw – disposto a tutto per salvaguardare un uso etico della conoscenza storica. Dopo essere scampato a una bomba – che di fatto lo libera – e a un inseguimento sul tetto di un treno in corsa verso l’abisso, Jones e Shaw si ritrovano tra le mani un oggetto ben più potente della lancia, rivelatasi un falso: il quadrante di Archimede – l’Antikytera – ideata dal matematico siracusano per permettere viaggi nel tempo attraverso porte dimensionali. Ecco: il tempo. Subito dopo il frenetico – e lunghissimo – incipit, troviamo un invecchiato Indy (siamo nel 1969) addormentato sulla sedia del suo appartamento newyorchese. A svegliarlo non sono i crepitii della guerra, i clangori di un combattimento, ma le note beatlesiane di Magical Mistery Tour suonate a volume troppo alto da un gruppo di giovani che vive nell’appartamento accanto al suo. La discrasia generazionale è il punto di partenza, il corpo di Jones – ringiovanito attraverso la CGI nella prima sequenza – mostra i segni evidenti dell’età, del tempo che passa. Indiana Jones e il quadrante del destino raddoppia l’ossessione per il passato del suo protagonista – specchiandola nel suo fisico invecchiato – e la porta al paradosso: nei continui spostamenti geografici – Tangeri, la Grecia, Siracusa – si insegue uno strumento in grado di piegare la curva del tempo, di sottometterlo ai propri desideri.

 

 

Voller, una sorta di dottor Stranamore riciclatosi alla NASA dopo la sconfitta del Reich, vuole usare il marchingegno di Archimede per tornare indietro e modellare un nazismo vincente, rimediando a posteriori agli errori hitleriani. Jones, nel cercare di impedire una riscrittura tragicamente distopica della Storia, insegue il passato come una chimera, come un esorcismo all’implacabile scorrere del (proprio) tempo biologico. L’inserimento dell’idea di viaggio nel tempo nel “canone” di Indiana Jones stride, banalizza il rapporto quasi esistenziale tra il personaggio e l’idea stessa del passato. Indy è un professore/archeologo che si è reinventato eroe d’avventura per salvaguardare la mistica della Storia, per metterla in una relazione ideale con il presente; la possibilità di superare le barriere del tempo banalizza l’epica del personaggio, riducendolo a un eroe acciaccato alle soglie della fantascienza, conducendoci – tra un inseguimento e uno spiegone, tra un bolso ammicco e un’ennesima citazione – a un finale inspiegabilmente goffo. James Mangold mette in scena il tutto in maniera contundente e ridondante, la sceneggiatura si sfrangia e si incarta, i personaggi sono smaccatamente bidimensionali (compresa Helena Shaw/Phoebe Waller-Bridge, indipendente e apparentemente senza scrupoli, coraggiosa e in fondo di buon cuore, un personaggio femminile perfettamente aderente alla sensibilità corrente: peccato che sia scritto con somma superficialità). Non si tratta poi di contestare la messa alla prova della sospensione dell’incredulità, che si dà per scontata, ma la dilatazione ipertrofica di ogni scena, la contorta banalità dell’impianto narrativo, il nascondere dietro una sequela di episodi tenuti assieme da un filo sottilissimo (e sotto il tappeto sonoro della musica di Williams che giocando sulla nostalgia spinge alla narcosi) la scarsità di idee.

 

Indiana Jones e il quadrante del destino è un aggiornamento che cerca di compiacere un nuovo pubblico, abituato alla magniloquenza rumorosa e alle inspiegabili lunghezze di un qualsiasi prodotto Marvel, facendo affidamento sulla devozione degli appassionati della saga, confondendo montaggio frenetico e ritmo narrativo, snaturando e depotenziando la romantica attrattiva dei suoi predecessori. Indiana Jones e il quadrante del destino è in fondo un tradimento: concettualmente più un reboot che un sequel, a dispetto dei rimandi continui ai precedenti capitoli. A collegarlo alla trilogia classica (ma anche all’ingiustamente bistrattato Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo, in cui la mano di Spielberg garantiva una continuità ben più consistente con il canone jonesiano) restano solo note e citazioni. E la forza iconica di un cappello e di una frusta, ridotti però a icona commerciale, ormai privi del fascino senza tempo che animava quelle avventure lontane.