Il tragico paradosso di L’uomo che vendette la sua pelle di Kaouther Ben Ania

Opera coraggiosa e fantasiosa, che opta per una sceneggiatura e per un’estetica totalmente opposta a quelle realistiche a cui molti racconti sui rifugiati ci hanno abituato, il quinto lungometraggio della regista franco tunisina Kaouther Ben Ania è ambientato infatti nel mondo del collezionismo d’arte contemporanea, già indagato con sagacia da The Square di Robert Ostlund nel 2017. Dopo alcuni corti, e aver tentato sia il documentario con Les imams vont à l’école (2010) e Zaineb Takrahou Ethelj (fuori concorso a Locarno nel 2016) che con la fiction – Le Challat de Tunis (all’ACID di Cannes 2014) e Aala Kaf Ifrit, a Un Certain Regard a Cannes 2017 (distribuito in Italia da Kitchen Film come La bella e le bestie), la laureata alla Fémis di Parigi ha portato in Orizzonti a Venezia 77 un film felicemente ibridato di diversi toni e generi. In equilibrio tra satira del mondo artistico museale, a cui Monica Bellucci aderisce con autoironia, e romantica love story dal sapore mediorientale, mette in scena lo sfruttamento delle tratte umane attraverso un espediente di derivazione faustiana.

 

 

Il noto artista belga Jeffrey Godefroy (Keon De Bouw) stringe un contratto con Sam Ali (Yahya Mahayni), in fuga dalla guerra a Raqqa e da un amore ostacolato: in cambio della sua schiena da esporre e su cui tatuare una riproduzione di un visto Schengen, Sam otterrà lo stesso documento per poter lasciare il Libano, da profugo siriano, e stabilirsi proprio nella sede del Parlamento Europeo. Lo spunto della sceneggiatura proviene dall’incontro della regista con un’artista reale, Wim Delvoye, del quale nel 2008 notò l’opera Tim: un “tatuaggio vivente” regolato da un contratto ed effettivamente venduto a un collezionista privato. Delvoye non solo appare nel cameo dell’assicuratore ultracinico dell’“opera-Sam”, ma è anche l’autore della serie Tapisdermie, che si intravede nel Museo Reale delle Belle Arti di Bruxelles in cui Sam è esposto: sculture di maiali in poliestere, rivestiti di preziosi tappeti orientali, come antichi emblemi araldici. L’elemento animale ricorre in tutto il film, fin dalla seconda sequenza, in cui un gatto rossiccio, doppio del protagonista per flessibilità e libertà; i pulcini marchiati per la vendita nella fabbrica in cui Sam lavora in Libano, poi trasformati in polli in batteria, alla stregua di viaggiatori compressi; l’opera-agnello che anticipa il sacrificio umano al vernissage in cui Sam conosce Jeffrey; il pavone dai colori stupefacenti, simbolo di una terra edenica e di un amore perduti.

 

 

Dialoghi diretti e temerari, al confine con le trame operistiche, esplicitano il tragico paradosso, la contraddizione clamorosa dei nostri tempi: la circolazione delle merci è libera, quella degli uomini, no. Il mondo è diviso in aree privilegiate e no. I passaporti non sono tutti uguali. Tutto si compra e si vende. E sotto una superficie raffinata, sempre doppia ed elusiva, il film fa esplodere pregiudizi e ipocrisie. Oltre all’originalità e ai colpi di immaginazione dello script, che inventa magie (la camicia di Sam che si confonde con ed emerge tra le borse di plastica degli esiliati, l’escamotage con cui riesce a passaggio del confine, in auto) a colpire è la sicurezza della regia di Kaouther Ben Ania, che accoglie lo spettatore con un prologo illusionista, usa la profondità di campo per moltiplicare sguardi e cornici e le alternanze di fuoco e fuori fuoco per disorientare; inquadra i due amanti al telefono in uno split screen quasi onirico, e il suo plastico protagonista, opera d’arte vivente, di volta in volta come un simbolo, un oggetto, un ballerino, un vettore di civiltà. Un corpo teso, in cerca di vita. A Yahya Mahayni è andato il premio Orizzonti per la migliore interpretazione maschile e al film il Premio Edipo Re per l’inclusione, dal 2018 tra i premi collaterali della Mostra di Venezia, ispirato al Manifesto per l’inclusione a cura dell’Università di Padova.