Il veleno nell’anima: Le assaggiatrici di Silvio Soldini

Nel 1943, la Germania è forse ancora convinta di poter vincere la Seconda Guerra Mondiale, ma il Paese è impoverito e affamato, anche in campagna, dove pure è più facile contare sui prodotti della terra e dell’allevamento. In questo contesto deteriorato ma non ancora esausto, dopo la morte della madre, la giovane Rosa Sauer lascia Berlino, sempre più bersaglio dei bombardamenti alleati, e raggiunge i suoceri nella Prussia Orientale. Il marito è impegnato sul fronte russo, e i suoi anziani genitori accolgono la nuora con tutto il calore che la situazione permette, contenti di avere un aiuto in casa. Neanche il tempo d’arrivare, tuttavia, che un commando militare preleva Rosa, insieme a una manciata di altre donne del posto, conducendole nella foresta della Masuria, in una caserma della Tana del Lupo, dove Hitler ha stabilito il proprio quartier generale (oggi in territorio polacco). Rosa e compagne (che non nascondono il disprezzo per l’intrusa berlinese) ricevono un solo ma chiarissimo compito, quello di testare il cibo del Führer, per prevenire eventuali avvelenamenti. Questo comporta essere a disposizione ogni giorno (salvo quando Hitler, che mai compare di persona nei due anni in cui svolge la storia, si sposta a Berlino), con la consapevolezza che i gustosi bocconi che nutrono il loro corpo affamato – che il cuoco del dittatore si perita di descrivere con competenza e un approccio umano che invece difetta ai soldati preposti al loro controllo – potrebbero poco dopo ucciderle. In principio è il panico, con timidi tentativi di ribellione; ma le assaggiatrici capiscono ben presto che non ci sono alternative né possibilità di fuga, e che devono rassegnarsi alla coercizione, al controllo severo del loro corpo da parte dei soldati, rimodulando la propria vita sulla base dell’ineludibile impegno.

 

 
Al suo primo lavoro che non ha un’ambientazione contemporanea (qualcuno ha parlato di film in costume, ma pare una forzatura), Silvio Soldini realizza un persuasivo adattamento cinematografico del pregevole romanzo di Rosella Postorino (vincitore del Premio Campiello nel 2018), che si era a sua volta ispirata al racconto dell’unica assaggiatrice sopravvissuta al conflitto, Margot Wölk, scoperto leggendone sul trafiletto di un giornale italiano l’incredibile esperienza, mantenuta segreta (per paura) fino a tardissima età. Non te lo aspetti, un Soldini così, ma non tanto per la derivazione letteraria “importante” del copione, considerato che qualcosa di simile aveva già fatto con Brucio nel vento (tratto da Ieri di Agota Kristof), il cui esito non era peraltro stato all’altezza delle sue prove migliori. Se non te lo aspetti è perché quasi tutte le sue opere, e certamente le più riuscite, sono percorse da una leggerezza malinconicamente trasognata, molto riconoscibile (e molto imitata, nel cinema italiano), oltre che da una libertà espressiva che qui invece non si concede, concentrato com’è sul rigoroso rispetto dell’impianto narrativo del romanzo, tanto da correre il rischio opposto di presentare una materia perfino troppo sorvegliata.

 

 
D’altronde, per ottenere la maggiore aderenza filologica possibile, il cineasta milanese ha girato in tedesco (e poi doppiato), e tedeschi sono gli attori principali, a partire dalla bravissima Elisa Schlott nei panni di Rosa. Convince anche l’operazione di levigatura del testo originario, del quale viene tralasciata in toto l’ultronea appendice post bellica; anche se poi Soldini aggiunge sfumature alla componente “romance” della storia, caricando il rapporto (fisico e utilitaristico) che Rose intrattiene con l’ufficiale al comando della caserma di improbabili implicazioni sentimentali. E se si mostra efficace nel delineare le relazioni che si creano nel gruppo di forzate degustatrici, non riesce forse a restituire fino in fondo certe sensazioni che il libro sa trasmettere in maniera quasi fisica, come quando la protagonista ricorda:«Il mio corpo aveva assorbito il cibo del Führer, il cibo del Führer mi circolava nel sangue. Hitler era salvo. Io avevo di nuovo fame». Il film funziona senz’altro meglio, per contro, quando esplora la capacità di adattamento delle donne in una situazione eccezionale, in cui il carburante è la paura, lo spirito di sopravvivenza il faro. Sul versante tecnico, dopo anni in cui il cinema di Soldini ha fatto rimpiangere l’assenza di compagni d’avventura dei tempi d’oro come Luca Bigazzi a dirigere la fotografia e Giovanni Venosta alla colonna sonora, un valore aggiunto si rivelano tanto la funzionale fotografia d’epoca del veterano svizzero Renato Berta (già collaboratore di Gitai, De Oliveira, Martone, Straub & Huillet…) e le belle, eleganti, musiche originali di Mauro Pagani.