La distopia canina di Wes Anderson

Mondo cane distopico. L’ansia da isolamento in cui si conclude da sempre il cinema di Wes Anderson si materializza nel futuro nippo-canino di Isle of Dogs (opening in competizione della Berlinale 68), secondo step del versante animato della filmografia di questo dandy texano, a nove anni di distanza da Fantastic Mr. Fox. Questa volta non c’è Roald Dahl alle spalle e nemmeno Noah Baumbach ad affiancarlo in scrittura, ma torna al suo fianco Roman Coppola, già suo compagno di viaggio sul Darjeeling Limited e nel Moonrise Kingdom. E l’impianto è molto più composito, intrecciato a immaginari coerenti con l’ideale patchwork di epoche, culture, visioni in cui il suo cinema si traduce da sempre. Il setting nipponico è lo stratagemma per elaborare un universo in cui la puppet animation si produce su layout che sembrano stare tra le stampe orientali e l’estetica distopica dei manga alla Otomo: frontalità, essenzialità del tratto e palette cromatica desaturata applicate a un mondo ipertecnologico, in cui carne e acciaio si confondono. La fiaba però è dolce, come si addice a una narrazione di uomini e animali, storia di legami indissolubili proiettata nel grigio futuro di Megasaki City, metropoli di una qualche prefettura giapponese governata dal dispotico sindaco Mayor Kobayashi. Questi ha imposto per decreto la quarantena di tutti i cani della città,  per tamponare una presunta infezione di influenza canina: spediti su un’isola adibita a discarica di rifiuti, i cani sopravvivono qui tra stenti e tristezza, unica speranza l’arrivo su un piccolo aereo del figlio del sindaco, il dodicenne Atari, determinato a ritrovare il suo cane, Spot.

L’intreccio distingue la dimensione tecnologica da quella umana in maniera netta, proiettando la visione distopica di un futuro stretto nell’assolutezza del potere sulla resistenza delle relazioni in cui si definiscono affetti, paure, emozioni. La tensione familiare e la pulsione di gruppo che da sempre anima il cinema di Wes Anderson trova nell’idea del branco di cani relegati sull’isola la sua rappresentazione logica: attorno all’apparentemente solitario Chief, un randagio orgoglioso della sua libertà, si raduna un gruppo di cani con pedigree familiare alto, in un gioco di relazioni tipicamente andersoniano, dove affetti, legami e relazioni si esprimono per contrasto, in funzioni spesso contraddittorie. L’animazione aderisce al classico distacco anaffettivo dei personaggi del regista, così come la ritmica della messa in scena incede con avventurosa lentezza, in un progressivo ricomporsi delle funzioni narrative sabotate in principio. Isle of Dog è insomma perfettamente coerente con la parte più matura del cinema di Anderson, quella sua capacità di stabilire un contatto col versante astratto e surreale delle narrazioni, il senso di un’avventura che è sfida astratta alle convenzioni della società, l’insistere su mondi conclusi e relazioni centripete che accolgono la sfida di un’apertura verso l’esterno che è scoperta del valore affettivo reciproco. E su tutto questo resta un film  che sa anche e soprattutto divertire, con sincerità e coerenza.