Junior (2011) è il primo cortometraggio della regista francese Julia Ducournau, Palma d’Oro all’ultimo Festival di Cannes con Titane. Junior/Justine è una preadolescente che i più definirebbero un “maschiaccio”: vestiti oversize, compagnie esclusivamente maschili, gergo e commenti misogini rivolti alle altre ragazze. Fino a quando, un giorno, costretta a casa da una strana influenza intestinale, vede progressivamente il suo corpo – e sé stessa – mutare. L’opera prima di Ducournau rappresenta un ottimo punto di partenza per una riflessione più estesa sull’importanza del suo cinema. Innanzitutto, Junior è un pregevole esempio di opera sinestetica, dalle forti evocazioni olfattive. Un’opera che mette al centro non solo la corporeità della protagonista ma anche quella dello spettatore, provocato e stimolato sensorialmente. Osserviamo le immagini, ne percepiamo l’odore. In questo breve ritratto della metamorfosi, Ducournau, attraverso le mutazioni puberali di una giovane donna, getta le basi per una riflessione sul soggetto-corpo, che, in quanto campo politico, perde la sua “innocenza” e ritorna, evolvendosi, nelle pellicole successive. Non a caso, protagonista nel suo primo lungometraggio, l’horror dalle atmosfere e dagli ambienti cronenberghiani Raw (2016), è il corpo della medesima attrice, Garance Marillier, che, come un Antoine Doinel/Jean-Pierre Léaud di rimembranze truffautiane, torna e vive anche questa volta, sempre con il nome di Justine, una fase di passaggio e mutazione, dall’adolescenza all’età adulta. Una Justine, due Justine diverse, un unico corpo, che deve iniziare a nutrirsi per trovare il suo posto nel mondo. L’unica evoluzione possibile è un’evoluzione cannibalistica, attraverso la quale l’essere si ciba di sé stesso e dei suoi simili per poter rinascere in forma nuova.
Non stupisce, dunque, che l’approdo del viaggio di matrice evidentemente filosofica intrapreso da Ducournau sia un film come Titane (2021). Protagonista della pellicola è Alexia (interpretata da Agathe Rousselle), alla quale, ancora bambina, viene impiantata nel cranio una placca di titanio in seguito a un incidente stradale. La ritroviamo subito dopo adulta, ballerina sexy che si esibisce sulle automobili, con una delle quali ha un rapporto sessuale che la lascerà incinta e fuggitiva, dopo aver ucciso un ragazzo che pretendeva una prossimità fisica non voluta e i genitori, con i quali pare non aver mai avuto dialogo. Il corpo inquieto e sofferente di Alexia troverà casa da un “affine” (colui che è famiglia non per sangue ma per scelta), il pompiere Vincent, un Vincent Lindon che ci regala un corpo anch’esso mutato – dagli steroidi – che lotta per sottrarsi alla solitudine e che accoglie Alexia/Adrien in tutta la sua “anomalia”. Con premesse come queste, il cinema di Ducournau è un cinema che non può e non deve essere ortodosso. Deve, al contrario, far storcere il naso, disgustare in qualche modo, poiché, operando una riscrittura su più livelli, quella filosofica del corpo e quella del linguaggio cinematografico, spinge lo spettatore ad andare oltre i limiti, lo costringe a ripensare sé stesso in quanto agente del/sul mondo, spronandolo a una non-passività che infastidisce proprio perché implica la messa in discussione di una comfort zone che ci appare familiare pur essendo, a conti fatti, una gabbia. Ducournau ha saputo trasporre a livello filmico ciò che Donna Haraway teorizzava pionieristicamente nei primissimi anni ’90 del Novecento con Manifesto cyborg (1991)¹: il corpo, lungi dall’essere mera somma dei suoi componenti organici, rappresenta la soglia della trascendenza del soggetto, la superficie d’incrocio di molteplici e mutevoli codici d’informazione, terreno di alleanze trasversali, al di là dell’opposizione del maschile al femminile, soggetto queer, soggetto cyberfemminista che diventa modello per una eterodossia che si sottrae ai dualismi dominanti. Ripensare il soggetto significa, dunque, ripensare le sue radici corporee, contro un sistema sociale che costruisce e manipola i corpi rendendoli asserviti al potere ottico contemporaneo. Titane incarna, trionfalmente, l’esatto opposto: l’accoppiamento umano-macchina che dipinge sullo schermo inquina il dogma, sovverte il “binario”. I corpi di Ducournau sono corpi rivoluzionari, gioiosamente vivi, corpi “malati” che è imperativo amare per scardinarci dalla schiavitù patriarcale e liberista. Come scrive il filosofo spagnolo Paul B. Preciado in un articolo pubblicato su Libération nel giugno 2020 intitolato Inno al corpo:
“Amiamo il corpo malato. Amiamo le cicatrici e i morsi lasciati sulla pelle dalle ferite. Amiamo il corpo anziano, segnato dal tempo, raggrinzito dal sole, pieno di ricordi. Amiamo il corpo lento. Amiamo l’imperfezione e lo squilibrio, il labbro screpolato, l’occhio che vede a malapena, la mano che fatica ad afferrare l’oggetto, il pene moscio, la gamba più corta dell’altra, la colonna vertebrale che non può raddrizzarsi. Amiamo il vero corpo, fragile e vulnerabile, e non il corpo ideale e tirannico della norma. Amiamo il corpo poetico, perché il linguaggio è solo uno degli organi astratti del corpo vivo. E amiamo il corpo in tutte le sue dimensioni organiche e inorganiche. Il linguaggio e la tecnologia sono organi collettivi e politicizzati. Come tutti gli altri organi del corpo, ci sono stati rubati. Non sappiamo quasi niente del corpo vivo. Occorre quindi amarlo là dove esso si esprime: nella sua tremula fragilità.” ²
Amiamo il corpo di Justine, amiamo il corpo di Alexia, amiamo i corpi rivoluzionari del cinema di Julia Ducournau e non spaventiamoci di fronte a una poetica che stravolge i canoni linguistici in favore di una liberazione filosofico-politica quanto mai urgente e necessaria.
1) Donna J. Haraway, Manifesto cyborg – Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo (Feltrinelli, 1995)
2) Paul B. Preciado, Inno al corpo, Libération, 20 giugno 2020. Su Internazionale, traduzione di Federico Ferrone.
https://www.internazionale.it/opinione/paul-preciado/2020/06/20/inno-al-corpo