La forza e la consapevole lucidità di Le pupille di Alice Rohrwacher

Un collegio di suore, un anno di guerra, una torta da settanta uova. Sono pochi, e quasi dissennati, gli ingredienti del cortometraggio di Alice Rohrwacher, Le pupille, candidato agli Oscar 2023. Ma, come talvolta accade, ingredienti dissennati, quando selezionati e miscelati da mani sapienti, riescono a costruire un oggetto misterioso, cristallino, quasi perfetto. Le pupille si lascia ispirare da una lettera inviata da Elsa Morante all’amico Goffredo Fofi. Da questo spunto Rohrwacher inventa mettendo in gioco il suo mondo: suorine ostiche e distanti, figure umili alle prese con il loro lavoro, donne folli che invocano preghiere e, soprattutto, un mondo dell’infanzia – qui tutto al femminile – che è il motore di uno scardinamento, di una frattura, di una minuscola ma non per questo inutile rivoluzione. La trama è un pretesto che scarta e si contorce: in un collegio di orfanelle, guidato da una madre superiora sempre pronta a invocare il sacrificio, specie quello degli altri, le bambine aspettano i giorni di festa, una festa che non ha un centro, un desiderio, una fonte di speranza. Eppure tutte sembrano in attesa di una manifestazione che si discosti dal sacro: un segno tangibile di una gioia possibile, fisica, terrena. E questo “miracolo” si concretizza in una gigantesca zuppa inglese, portata da una nobile pazza e innamorata in cambio di una intercessione ipotetica delle orfanelle, una preghiera beneaugurante che possa salvare un innamorato infedele perso nei disastri di una guerra in corso. Quella torta – quella reificazione di un sogno – diventa un simbolo, una speranza, la carne di tutti i desideri.
 

 

Ma la gerarchia tende ad allontanare quel dolce desiderato dalle bimbe: una canzone ascoltata dalla radio e ripetuta in coro (“Ba-ba-baciami piccina sulla bo-bo-bocca piccolina”, che interrompe un bollettino militare e che fa meritare un lavaggio della lingua con il sapone, come a voler mondare un istintivo coro di spontaneità inconsciamente ribelle alla guerra in corso come uno sberleffo, una linguaccia impertinente) diventa il pretesto di un fioretto imposto a chi non ha niente, la scusa di una privazione pretestuosa fatta passare per una mistificatoria purificazione. Il microscopico rifiuto, infantile quanto ferreo, della piccola Serafina rompe l’ingranaggio e fa risuonare un eco di libertà rivendicata. Rohrwacher ricrea un mondo a lei familiare: anche senza api e campagne, campi e contadini, il mondo dell’infanzia, con le sue rigidità e le sue esplosioni libertarie, risuona con la sua forza simbolica attraverso uno sguardo inconfondibile. Lo stile è brillante e asciutto, l’ironia amplifica l’afflato ribelle, la precisione di ogni singola inquadratura definisce un’estetica precisa e – priva di ogni pelosa retorica – una concretissima morale. Le pupille è un gioiello purissimo di un’autrice matura e fuori da ogni schema, che sa guardare a modelli alti con orgogliosa umiltà e che sa creare – davvero, senza facili entusiasmi – le coordinate di un mondo personale e autonomo, in cui risuonano con forza istanze che in questi tempi ottusi spesso si riducono a slogan senza profondità. Le pupille è un film che, apparentemente senza pretese, sa volare alto mantenendo uno sguardo volutamente basso: una giravolta che si mette in gioco con grande forza e consapevole lucidità. Una forza e una lucidità che, in questi tempi fastidiosamente ingrugniti e insopportabilmente retorici, mostrano il segno di un’intelligenza rara, da proteggere e coltivare con ogni mezzo necessario.