La ligne – La linea invisibile di Ursula Meier: il tempo e il paradosso del limite

C’è qualcosa di magnetico e vitale nel potente incipit del terzo lungometraggio della regista franco-svizzera Ursula Meier. Il caotico e drammatico ralenty amplifica non solo un atto di violenza colto in medias res, e che la trama tenterà di giustificare privilegiando il dubbio sulla certezza, ma anche indirizza lo sguardo verso qualcosa di più recondito, capace di intercettare il carattere intrinsecamente paradossale della condizione umana, sempre in bilico tra desiderio onnipotente e frustrazione impotente. Certo, La ligne – La linea invisibile è un film che guarda in modo insolito alle dinamiche famigliari tentando di smontarne la narrazione più omologante; è pure un film topografico nel senso che ricostruisce le tensioni sociali a partire dalla rappresentazione di un rapporto, che non potrebbe non essere conflittuale, tra gli spazi e l’essere umano, tra le forme e i sentimenti, tra lo sguardo e le parole; un film che sceglie di collocarsi in una zona di osservazione ibrida dove si riconosce il cinema come veicolo di espressione ideale ma anche dove si invoca la dimensione teatrale come rispecchiamento della realtà, come sistema che regola la vita, come meccanismo che rende possibile tutto, con le sue maschere, i suoi ruoli, le sue rivelazioni. 

 

 

Tuttavia, a ben guardare, e questa potrebbe essere una singolare novità, pare proprio che anzitutto a Ursula Meier stia a cuore interrogarsi, e portare lo spettatore a farlo, sull’agire del tempo nell’esistenza umana, sulle conseguenze della libertà, sulla crisi del presente. Seguendo il solco tracciato dalle sue due precedenti e intriganti opere, che già proponevano gli elementi caratterizzanti della sua idea di cinema disegnato su linee di forza, tensione del racconto, spazi mentali (in Home, i pochi metri che separavano l’autostrada dai muri di casa erano decisivi e rappresentavano il punto nevralgico del film; in Sister la ricerca di una verticalità con la funivia e il suo cavo teso tra un alto e un basso), La Ligne mette in scena il visibile (non l’invisibile come tiene a specificare la maldestra sottotitolazione della distribuzione italiana), traccia paradossale della coscienza del limite. Perché Margaret, trentacinquenne con alle spalle una lunga storia di violenze inflitte e subite, una fragilità emotiva che spesso non riesce a definire e contenere nelle sole parole, pur essendo consapevole delle imposizioni inferte dal severo ordine restrittivo (in attesa del processo e per almeno tre mesi, non le è permesso entrare in contatto con la madre né avvicinarsi a meno di cento metri dalla casa familiare), comprende che questa separazione è il motore del desiderio di essere più che mai vicina alla propria famiglia, tanto da farla recare ogni giorno sulla soglia di quel confine, così invisibile, così al momento invalicabile. La distanza tra Margaret e le sue relazioni profonde è lo spunto di partenza di un film che vuole andare a toccare con mano il senso del limite inteso sia come fine, termine (della vita, delle relazioni, del tempo a disposizione) sia come confine, soglia che fa sporgere sull’ulteriore, e dunque, possibilità di inizio. Prima di fare i conti con la propria identità e storia di figlia, Margaret attraversa l’esperienza drammatica (sempre lo è) di riconoscersi un individuo senza un prima e senza un poi, di essere un individuo atemporale, che vive un infinito presente, un essere umano ingannato dal paradigma dell’uomo assoluto, sciolto dai legami. Questa condizione di isolamento-indipendenza-solitudine conduce Margaret ad accettare il legame con una comunità, a riconoscere in modo paradigmatico l’evidenza della sua dipendenza, la negazione di sé stessa come monade separata dal mondo esterno. 

 


 

Realizzato in periodo di restrizioni, quarantene e chiusure pandemiche, oltre a restituire questa immagine del tempo vissuto nell’inquietudine di non potersi avvicinare, La ligne guarda a più riprese ai codici del western assumendo la linea come segno tangibile di un confine ideologico e politico, realizzato coniugando l’espressività derivata dai suoi contrasti. Non è riconoscibile il luogo della vicenda (anche se sappiamo di trovarci in Svizzera, in prossimità di Ginevra), costituito da uno strano miscuglio di acqua e montagne, neve e prati, case popolari, tralicci e canali, una pescheria, la ferrovia e il viavai di treni. Ed è proprio al crocevia di tutti questi spazi che il personaggio di Margaret viene ancorato, lei che proprio non riesce ad allontanarsi, a lasciare la sua famiglia o il suo ex compagno. Ursula Meier ha fatto riferimento alla sofferenza di Margaret come cifra di una voce e di un corpo che lentamente assumono nuove forme, infatti ha dichiarato: «Margaret combatte, ma soprattutto contro sé stessa. Soffre di questa violenza che non riesce a canalizzare e che può esplodere in qualsiasi momento. Anche se questo termine non viene mai pronunciato durante il film, perché ridurrebbe il personaggio a una patologia, il suo comportamento potrebbe essere più vicino al Disturbo Borderline (che letteralmente si traduce in Linea di confine, un’altra linea narrativa). Questa circonferenza che ha un raggio di 100 metri intorno alla casa è una specie di cordone sanitario e Margaret è come in quarantena. La maggior parte dei film o di storie famose che hanno sviluppato personaggi fisicamente violenti lo hanno fatto attraverso personaggi maschili. E quando questa violenza è espressa da personaggi femminili, sono per lo più adolescenti ribelli. La particolarità del mio film è che si tratta di una giovane donna di trentacinque anni che perde il controllo. Improvvisamente questo modello del cowboy solitario si incarna attraverso una “lei” piuttosto che un “lui”».

 

 

Non tutto è tenuto a fuoco e messo in equilibrio, talvolta si ha l’impressione che qualcosa rimanga contratto e inespresso (dalla recitazione eccessivamente straniante di Valeria Bruni Tedeschi, più dimostrativa e illustrativa che evocativa, alla scrittura di alcuni personaggi) ma questo rientra pienamente nell’economia di un film che, come si scriveva in apertura, pensa di seminare domande e dubbi anziché fornire risposte e certezze se non quella che l’esistenza di ciascuno rivela sempre qualcosa di inedito sentito come precario, instabile, temibile ma che può preludere a un riassetto, a un nuovo adattamento, alla creazione di nuovi equilibri che consentono una rinnovata presenza nel mondo e nella storia. Forse, allora, quel finale così silenzioso e così fortemente in contrasto con l’incipit rappresenta una sorta di conclusione di un rito di iniziazione che introduce a vivere la morte, o meglio, a morire simbolicamente per vivere realmente e pienamente.