La malinconia lieve e il sapore crudele di Lockdown all’italiana di Enrico Vanzina

Ha ragione Enrico Vanzina quando, a proposito di Lockdown all’italiana (brutto titolo, con quella parola inglese entrata nel volgere di un battere di ciglia nel lessico italiano, come se non fossimo capaci a trovare sinonimi nel nostro meraviglioso vocabolario, ricorrendo, tutti noi, sempre più a una globalizzazione linguistica preoccupante e superficiale), parla di “film malinconico”. Lo è, in ogni sua inquadratura, malinconica questa commedia d’interni, volgarmente presa di mira in rete prima della sua uscita, quindi senza averla vista da chi l’ha attaccata (quante volte sono già accadute cose simili?), che segna a 71 anni il debutto dietro la macchina da presa dello sceneggiatore Enrico Vanzina. Per oltre quarant’anni, dalla metà degli anni Settanta, lui e il fratello e regista Carlo (scomparso nel 2018) hanno disegnato attraverso il cinema popolare, commedia e non solo, ma tanti generi fra loro intersecantisi, una storia dell’Italia e dei suoi cambiamenti. Rimasto solo, ma con nel cuore il cinema di Carlo, la sua poetica (“sintetizzata” nell’omaggio reso in Lockdown all’italiana con il finale capolavoro di Sapore di mare, visto in televisione da Tamara) e il suo modo di girare veloce, Enrico Vanzina ha costruito una commedia per quattro personaggi (due coppie sul punto di lasciarsi – quella più che benestante composta dall’avvocato Giovanni, Ezio Greggio, e dall’ereditiera super viziata Mariella, Paola Minaccioni, e quella ben meno abbiente rappresentata dalla commessa Tamara, Martina Stella, e dal tassista Walter, Ricky Memphis – e invece costrette a convivere nei rispettivi appartamenti, uno enorme, l’altro modesto, perché le loro separazioni coincidono proprio con il giorno d’inizio del confinamento stabilito dal governo per combattere il Covid 19) e qualche comparsa che ha per set le stanze delle abitazioni e qualche spiraglio su scale, balconi, terrazze, mentre riprese aeree di Roma scandiscono le date della chiusura tra marzo e maggio.

 

 

Spazi ristretti dettati dalla situazione e personaggi obbligati a re-inventarli sui quali si posa uno sguardo malinconico, come una patina che si stende su oggetti e corpi e, nel pieno dell’attualità sociale, trasporta il film in una dimensione atemporale o, meglio, nella sua essenzialità e asciuttezza lo fa dialogare con un’idea di cinema classica italiana e allargata, ponendosi riferimenti alti (Vanzina cita Carnage di Roman Polanski tra le opere che lo hanno influenzato). Un film, in tale contesto, che sconta una certa rigidità di messa in scena (Carlo aveva una meravigliosa leggerezza di tocco qui rara, anche se certe scene o anche solo inquadrature sono notevoli) ma soprattutto, e sembra un ossimoro parlando di uno sceneggiatore esperto come Enrico Vanzina, di sceneggiatura, ricorrente fin troppo a frasi, modi di dire, parole, espressioni utilizzate a dismisura nei duri mesi del coprifuoco. Ma poi ci sono scene che superano questi ostacoli, quelle che descrivono i momenti più intimi vissuti singolarmente dai personaggi o dalle coppie, tra solitudini e confidenze, nelle quali si respira uno st(r)ato di malinconia diffuso e lieve, grazie anche alla fotografia di Claudio Zamarion. Ci si sente davvero reclusi, in Lockdown all’italiana, commedia sì, ma dal fondo crudele, con vizi che non si perderanno mai, buone intenzioni dilapidate sul nascere e un finale che lascia intuire una “rivoluzione” di classe, uno sconfinamento dal confinamento nelle parole e sui volti di Memphis e Stella de-formati in “presenze” horror pronte a varcare lo schermo e a “venirci a trovare, a prendere”. “Ce li cuciniamo noi questi due pupazzi”, dice Tamara a Walter, che le risponde: “Periferia batte Piazza di Spagna”. Entrambi, guardando nell’obiettivo.