La ragazza con il braccialetto di Stéphane Demoustier: una questione etica

Un prologo in campo lungo con una famigliola su una spiaggia privata: un’immagine quasi idilliaca, disturbata dall’intromissione di un uomo vestito di nero e di due poliziotti che si fanno seguire dalla figlia adolescente. Comincia così, senza dialoghi, La ragazza con il braccialetto scritto e diretto da Stéphane Demoustier che si è liberamente ispirato a Acusada dell’argentino Gonzalo Tobal (in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2018). Due anni più tardi si fa chiarezza sull’accaduto. Lise Bataille, adesso diciottenne, sta rileggendo i verbali degli interrogatori perché il giorno dopo inizierà il processo in cui è l’unica indiziata per l’omicidio della sua migliore amica, Flora. È lei la ragazza del titolo, intrigante ed enigmatica come può esserlo la Dama con l’ermellino o La ragazza con l’orecchino di perla: nel suo caso l’elemento che la contraddistingue non è in bella vista perché è sulla caviglia, il braccialetto elettronico che controlla i suoi spostamenti.

 

 

La madre (Chiara Mastroianni) le comunica che non sarà presente alle udienze in quanto deve seguire i suoi pazienti, mentre il padre (Roschdy Zem), molto protettivo con la figlia, la accompagna in auto dandole istruzioni su come comportarsi e poi la affida all’avvocatessa (Annie Mercier) e prende posto in aula. Non ci sono vie di mezzo, in ballo c’è l’assoluzione o 15 anni di condanna. Si assiste così allo sfilare dei testimoni: la madre della vittima, l’amica Noémie, Nathan, il ragazzo che Flora e Lise hanno condiviso senza troppi drammi, i periti; si vedono i video registrati il giorno dell’omicidio alla stazione di servizio, quelli postati su Internet che possono costituire il movente… Il dubbio a poco a poco si insinua anche perché Lise non fa nulla per allontanare da sé i sospetti, al contrario con il suo atteggiamento freddo e le sue asettiche risposte sembra condannarsi da sola. E la situazione peggiora quando a interrogarla è il pubblico ministero (Anaïs Demoustier) determinata a farla crollare spostando poco a poco l’attenzione dai fatti e dalla presunzione di innocenza al giudizio moralistico («Si definirebbe una ragazza facile?»). 

 

 

Stéphane Demoustier è molto abile a rivelare le crepe che sgretolano le certezze dei personaggi in gioco, senza spiegare troppo, ma lasciando parlare la ricostruzione, a volte palesemente pilotata, dei fatti e le relazioni sempre più zoppicanti nella famiglia Bataille: il padre, infastidito dall’assenza della moglie in tribunale, si rende conto di non conoscere per nulla la figlia («Avevo l’impressione si parlasse di qualcun altro»), Lise che in aula vede reso pubblico il suo privato e il suo comportamento disinibito e a casa è costantemente sotto pressione (arriva a chiedere al padre: «Quando il processo sarà finito, potrai smettere di dirmi sempre quello che devo fare?»), la stessa madre messa sotto accusa dal giudice quasi che la sua assenza fosse un’implicita condanna della figlia, il fratellino che cerca di vedere il lato positivo nella vicenda («Se vai in prigione, posso prendere la tua stanza?»), fino ad arrivare ai luoghi (la casa al mare intravista all’inizio ormai abbandonata e messa in vendita). Demoustier, poco interessato a dimostrare l’innocenza o la colpevolezza dell’imputata, riesce a mantenere una giusta distanza e a rappresentare con forza quello che finisce per configurarsi come un processo alle intenzioni e alla libertà sessuale. Merito di un cast azzeccatissimo su cui spicca l’esordiente Melissa Guers che incarna alla perfezione una ragazza ambigua, incapace di creare empatia, a tratti respingente e alla capacità di trasformare ogni spettatore in un giurato il cui arduo compito, come sottolinea l’avvocato difensore nell’arringa finale, non ha a che fare con la morale ma con l’etica perché “rendere giustizia” non equivale a “giudicare”.