La ragazza nella nebbia, l’architettura della finzione di Donato Carrisi

Avechot è un paesino sperduto tra i monti dove non succede mai niente, e tutti sanno tutto di tutti. O forse no. Quello che ti aspetti, in questa cittadina isolata da una vallata chiusa e senza sbocchi esterni, incubatrice di desideri inconfessabili e follie sfrenate, non si rivela altro che un’apparenza ingannevoledi ciò che la circonda, evidente già dalla primissima inquadratura fiabesca di casa Kastner, quieto presagio di sventura immerso nel silenzio notturno. Una tenebra da cui non è estraneo neppure l’ispettore Vogel (un poco sorprendente Toni Servillo), che in un classico incipit noir apre una storia narrativamente sconnessa in flashback,e solo in superficie apologo sull’ambiguità del Male e dell’illusoria tranquillità della vita di montagna. Il dialogo-confessione fra Vogele lo psichiatraFlores (Jean Reno) fa da cornice al racconto di una sparizione, quella della sedicenne Anna Lou, e della discesa nel lato oscuro di Avechot, tra i segreti inquieti dei suoi abitanti, non immuni da frequentazioni religiose radicali, e le conseguenze mediatiche di un’indagine, con chiari richiami a fatti reali della cronaca italiana degli ultimi anni. Con La ragazza nella nebbia, esordio alla regia per Donato Carrisi che adatta il suo romanzo omonimo, si fa presto a pensare ad altro: alle tinte stilistiche di ben più noti registi, da David Fincher e Denis Villeneuve, fino ovviamente a David Lynch e la sua Twin Peaks, a cui guardava già qualche tempo fa Andrea Molaioli con La ragazza del lago (2007).

Ma anche a suggestioni letterarie, vicine alle atmosfere sintomatiche di Friedrich Dürrenmatt e del suo disincanto sulla vita tranquilla in Svizzera nel romanzo La promessa, che tra l’altro condivide più di un’affinità con la storia di Carrisi (l’importanza del colore rosso, ad esempio).Eppure sarebbe sbagliato ritenere La ragazza nella nebbia un esordio formalmente poco originale, che fa del Male l’imperante protagonista; del cinismo la spia di un mondo contaminato dal vizio e l’immoralità; dei media il contraltare distorto e famelico della cronaca nera. Del resto è proprio nel personaggio del professor Martini, vittima sacrificale delle indagini di Vogel, e nel suo pensiero secondo cui “un buon romanziere copia da chi ha scritto prima di lui”, che possiamo ravvedere la dichiarazione di intenti di Carrisi e l’idea che ha orientato la sua regia; ma anche la traccia non di un banale gioco di doppi e false piste, quanto piuttosto di un’architettura della finzione in cui la stessa cittadina di Avechot (luogo immaginario) è riproposta più volte, sin dall’inizio,nella forma fittizia di modellino in scala, mentre l’inganno delle apparenze e delle copie si ramifica in luoghi, oggetti e personaggi spesso appiattiti su versioni già viste, se non caricaturali (la giornalista senza scrupoli, in primis). Al netto di qualche forzatura nell’intreccio, Carrisi fa del suo esordio un saggio sui topoi del genere, dirigendolo con una consapevolezza estetica non usuale in un debuttante. Sacrificando l’essenzialità in favore di eccessi e barocchismi formali e narrativi, col rischio però di voler stupire a tutti i costi con i colpi di scena (si veda il finale, con una sorpresa a orologeria), il regista porta avanti un discorso coerente, non moralistico, sulla falsificazione della realtà, dove ogni personaggio ha le sue colpe, in cui i cardini del racconto giallo riescono soltanto a dimostrare come la giustizia sia un ulteriore ingranaggio di una mistificazione globale, nella quale i colpevoli sono spesso in grado di farla franca.