La religione degli umani in Il cielo sopra Berlino, di Wim Wenders

Il cielo sopra Berlino è stato per il Wenders della fine degli anni ’80 un catalizzatore di nuove emozioni dopo quelle americane, conclusesi con quel film argine e confine di un periodo che è stato Paris-Texas. Questo, che sarebbe stato il suo successivo, portava con sé la consapevolezza di una nuova condizione, un modo per resettare lo sguardo, caricandolo di nuovi significati che si arricchivano delle sensazioni del ritorno in patria. Guardato a distanza di anni si trattava, per un autore come lui, di una tappa necessaria per completare o arricchire la sua parabola narrativa. Una poetica che badando al racconto della interiorità introspettiva ha contribuito ad estendere e offrire nuova linfa al cinema, facendo riscoprire, dopo le metafisiche dell’anima che avevano trovato spazio nella cinematografia del nord Europa, nuove vie della narrazione, in una specie di ininterrotta sintonizzazione con un diapason universale che riflettesse i suoni dell’anima di quei personaggi. Una iconografia costante nel cinema di Wenders di quegli anni, che resta simbolicamente sintetizzata nell’incipit di Lisbon story con Philip Winter che armeggia sulla sua autoradio attraversando i confini d’Europa che lo separano dalla sua meta portoghese. È con quest’animo che va visto il film di Wenders del 1987, oggi al suo ritorno in sala dopo il restauro che ne ha fatto la Cineteca di Bologna.

 

 

Indubbiamente si tratta di un film che resta decisivo per il nuovo corso della filmografia del regista tedesco e punto di riferimento costante per qualsiasi intervento che metta in rapporto il cinema e la città come spazio delle emozioni, come ulteriore sintesi di una convivenza sociale fondata non tanto sui temi di una politica dell’amministrazione, quanto, invece, su quella meno affrontata politica delle relazioni in rapporto alla memoria e alla propria condizione umana. Wenders ha indagato a fondo sui temi delle connessioni tra città o meglio metropoli e condizione umana. Nel bel libro curato da Paolo Federico Colusso Wim Wenders Paesaggi, luoghi, città, che diventa una indispensabile guida alla ricerca di quel filo sospeso tra memorie ed emozioni, anima personale e anima collettiva – che è poi il senso ultimo del film – il Curatore esordisce con una lunga riflessione del regista tedesco sul suo rapporto con le città: «io sento la città come una condizione dell’esistenza e questo deriva dalla mia esperienza con l’America, dove le città hanno assunto una estensione enorme». Non è scindibile questa dichiarazione – che assume i contorni di un manifesto della sua poetica, che in verità risale a molti anni prima di questo film e si può far coincidere con l’uscita di Alice nelle città – da un più generale sguardo al suo cinema e a questo film in particolare.

 

 

Si addensano in Il cielo sopra Berlino quelle oscure e invisibili relazioni che legano le collettività ad un disegno umanamente divino e inavvertibile. In questa direzione l’invenzione degli angeli umani che da spiriti incorporei agognano, in fondo, ad una condizione umana, costituisce forse il punto di contatto più materiale e tangibile, per il cinema di Wenders che ha sempre aspirato a diventare forma vivente di un’anima collettiva, bacino infinito per raccogliere le emozioni umane, in qualche eccesso predicatorio forse, in qualche momento di esagerazione ecumenica probabilmente, ma con l’intenzione di mostrare film che incrociassero il piacere della narrazione quasi subliminale, tanto rarefatto è infatti il peso della trama in questo film di angeli che tornano sulla Terra per raccogliere i pensieri degli umani, restando affascinati da quella memoria così forte in una città che è stata vittima di una guerra devastante, ma con l’ulteriore intenzione di toccare i temi di una metafisica terrena che distaccandosi da ogni divinità conosciuta sappia recuperare in quelle memorie, in quelle emozioni le tracce di un’anima universale nell’umano quotidiano. Il lavoro sarebbe stato completato qualche anno dopo con l’ideale sequel che è Così lontano così vicino. È in quel film che forse si manifesta in modo completo il desiderio di umanità (materialità) degli angeli, affidando a Cassiel, l’angelo che ora guarda la vita di Damiel (Bruno Ganz), che sei anni prima si trasformò in umano con l’aiuto di Peter Falk, che interpreta sé stesso, già passato da quella esperienza.

 

 

Dice Cassiel nel film del 1993: «come vorrei essere per una volta uno di loro! Vedere con i loro occhi, ascoltare con le loro orecchie, e decifrare come vivono il tempo, e subiscono la morte. Come sentono l’amore e percepiscono il mondo. Essere uno di loro, per diventare un più luminoso messaggero di luce in questa epoca buia» è questa dichiarazione d’amore angelica che Wenders fa propria e trova la sua origine in Il cielo sopra Berlino, non del tutto esente da difetti. Infatti, quantunque preciso nella messa a fuoco di uno sguardo superiore anche visivamente superiore con gli angeli che stazionano sui cornicioni delle chiese e sono visibili solo ai bambini – solo questo tema meriterebbe un proprio spazio di riflessione – si concede alcuni momenti di eccessivo universalismo nel tentativo di condensare con le parole – ad esempio quelle affidate nel finale alla trapezista Marion interpretata da Solveig Dommartine – ciò che la sintesi delle immagini aveva perfettamente reso, senza nessuna necessità di rendere didascalico ciò che restava inteso nella ambiguità netta delle immagini, nella sintesi perfettamente focalizzata di ciò che si era visto e sentito. Wenders dichiara già nell’incipit il destinatario del suo racconto: Quando il bambino era bambino … una condizione che non è legata dunque al tempo, ma alla predisposizione dell’animo. Il bambino può smettere di essere bambino e lo è solo quando lo era, prima della perdita di quell’innocenza originaria.

 

 

È dunque sull’innocenza infantile che Wenders fa affidamento per restituire all’uomo l’umanità perduta, quella stessa innocenza che manifesta Damiel nella sua coloritura umana, quando abbandonato il bianco e nero dello spazio dell’immaginario del cinema, così caro a Wenders, egli stesso ripiega sul colore come forma naturalistica del mondo che però fa sparire quelle intime emozioni relegando il suo Damiel alla piacevole materialità di una sigaretta o a quella cupa di un muro ancora nel 1987 divisorio, rallegrato dai disegni, per la verità inquietanti, degli umani. Il cielo sopra Berlino prova, appunto a diventare dispositivo e strumento affinché ciò che accade nel cielo, accada anche sulla Terra, ciò che accade in quella felice immaterialità degli angeli, diventi costante religione degli umani.