La scrittura delle emozioni in La tana, di Beatrice Baldacci

Se in parte il senso di deja vù determina le primissime impressioni che colgono lo spettatore di La tana, è vero anche che il diradarsi dei dubbi si fa concreto nel momento in cui il film della giovane regista di Città di Castello, svela una sua sicurezza espositiva, il suo intendimento. Un obiettivo che è tutto contenuto nel racconto del disagio di Lia, la protagonista, che deriva dalla sua scelta di solitudine autoimposta a causa della madre consumata lentamente da una malattia degenerativa. Il racconto che non è nuovo, sa però farsi originale e sa trovare un proprio ritmo narrativo che oscilla tra l’esile trama esteriore e il corposo racconto di una intimità emotiva che appartiene a Lia, ma anche al disorientato Giulio, che fa il suo ingresso nella maggiore età con il battesimo del primo innamoramento e le immediate difficoltà nel rapporto complicato con Lia. È, infatti, durante l’estate dei diciotto anni di Giulio che si svolge la storia, tutta racchiusa in un microcosmo lontano da ogni metropoli, nella solitudine di una anonima campagna dove il ragazzo trascorre il passaggio alla maggiore età per dare una mano ai suoi nel piccolo appezzamento di famiglia. La casa dei vicini, disabitata da tempo, si anima e Lia compare con la sua bellezza scorbutica e la sua imprevedibilità caratteriale. Il sentimento che nasce tra i due giovani è interrotto da un mistero che Lia cova e che Giulio scoprirà quando verrà a conoscenza del grave stato di salute della madre di Lia, afflitta da un male che la astrae dalla realtà cancellando, progressivamente, ogni memoria del passato.

 

 

In fondo il film, che nasce da un’esperienza autobiografica, vive dentro un doppio binario dove il tema dominante sembra essere quello della memoria fuggevole e di un presente nel quale il bisogno di coglierne il pieno fascino per Lia diventa sfida incessante nei confronti del destino, in quel malcelato nichilismo che la spinge verso il desiderio di rendere estremo il suo stare al mondo. Il controverso personaggio di Lia sa di potere recuperare il suo rapporto con il presente solo in quel passato sfuggitole di mano poiché cancellato dalla mente della madre e lo cerca con Giulio, in quelle fotografie disordinate, nelle tracce dei ricordi infantili. La tana è un film fondato su un racconto povero, ma tutto posto in equilibrio tra spunti emotivi, che restituiscono l’ansia dei due giovani protagonisti attratti da una sensualità istintiva, intravista sin dalle prime immagini con la sfida sfrontata di Lia che offre a Giulio il desiderio del suo corpo, ma anche l’ansia di liberazione dal male che alberga in Lia e che diventa per Giulio l’enigma della sua estate. La tana è il luogo del riparo e della sicurezza, ma è anche il luogo dove chiudersi al mondo ed è questa per Lia la funzione della casa di campagna.  Un luogo inaccessibile, un luogo segreto dove consumare anche desideri di morte per sé stessa e per la madre. Giulio, spettatore e protagonista paziente, con il suo antagonismo partecipe fa entrare Lia nella sua vita tranquilla tanto da sconvolgerla.

 

 

La tana lavora sul versante di una scrittura delle emozioni, che costituiscono il vero scenario del racconto. Un carattere comune al cinema d’esordio nel quale si tende a fare confluire le consolidate spinte emotive, le emozioni che diventa necessario raccontare. Un lavoro di scrittura e di astrazione che se ben condotto, come in questo caso, nell’escludere progressivamente il bisogno di narrazione va a vantaggio di uno spessore espositivo nel quale il racconto diventa il filtro per quelle emozioni, elemento, dunque, perfino secondario per un testo che si atteggi come essenzialmente narrativo. Quello che resta da sottolineare è quella sorta di filo rosso che lega, inevitabilmente, gli esordi o i quasi esordi nel cinema italiano. Su queste stesse pagine qualche settimana fa si è parlato del film di Chiara Bellosi Calcinculo e ancora prima di Piccolo corpo, esordio di Laura Samani, altri due film che insieme a La tana oltre a evidenziare il sempre più importante sguardo femminile che da tempo mancava in modo così marcato dal panorama del cinema italiano, evidenziano anche, più o meno casualmente, il bisogno di dare voce all’elaborazione di una intimità invisibile. Questi racconti e gli scenari all’interno dei quali si svolgono, forse tratteggiano uno specifico femminile che, dallo stato embrionale in cui lo stiamo guardando, speriamo sappia crescere per offrire nuova linfa al cinema (italiano).