La solitudine del fuoriclasse: Hustle di Jeremiah Zagar su Netflix

«Non pensate a vincere la partita», diceva coach Wooden.

«Fate però tutto il possibile per prepararvi.

Se saprete di avere fatto tutto il possibile e di aver dato il meglio di voi stessi sul campo,

quella sarà la vostra ricompensa. Il tabellone dei punti non è importante…».

(da Coach Wooden and Me di Kareem Abdul-Jabar, ed. add)

 

Sudore, lacrime e vittorie. C’è un vero proliferare (un sovraffollamento?) di film e serie su qualsiasi sport. Sulle varie piattaforme possiamo trovare un numero sempre maggiore di opere che pretendono di cogliere l’epica sportiva, sui ring, campi di calcio o playground. Dal “finto” documentario celebrativo alle serie-reality che – in vero – di realtà spesso hanno pochissimo. C’è però un titolo recente che è già diventato quasi un instant cult, almeno tra gli appassionati di basket, ed è Hustle diretto da Jeremiah Zagar, ex documentarista e già autore di Quando eravamo fratelli (premiato al Sundance 2018). È un buon film di “fiction”, ma estremamente realistico e ben documentato, sul mondo all’apparenza scintillante della pallacanestro NBA (tra i produttori c’è LeBron James…). In particolare, è il primo film a concentrarsi soprattutto sul rapporto coach-singolo giocatore e sul complesso sistema per accedere al basket professionistico americano, nonostante le evidenti doti atletiche di un uomo alto due metri e sei, con lampante propensione al canestro… 

 

 

Certo, il capolavoro Hoosiers (Colpo vincente, 1986) di David Anspaugh resta “IL” film sul basket per eccellenza, sullo spirito sportivo e le meravigliose possibilità del Gioco. He Got Game (1998) di Spike Lee e il recente The Way Back (Tornare a vincere, 2020) di Gavin O’Connor sono opere sulla possibilità di risorgere e redimersi attraverso la palla a spicchi. Hustle è invece incentrato soprattutto sul legame tra un talent scout con ambizioni da allenatore e un giocatore di pallacanestro di strada. Narra la storia dell’ultra cinquantenne Stanley Sugerman (Adam Sandler), ex promessa del basket collegiale, una carriera recisa da un incidente d’auto, ora scout dei Philadelphia 76ers. L’uomo gira il mondo in cerca di giovani sconosciuti che, oltre al talento, abbiano una mentalità da (possibile) campione. Dopo l’ennesimo viaggio “a vuoto”, scopre che il patron della squadra, Rex Merrik (Robert Duvall), ha finalmente deciso di affidargli l’agognato ruolo di assistant coach. Mr. Rex Merrik però viene a mancare e la squadra viene “ereditata” dal figlio Vince (Ben Foster) che non ha un buon rapporto con Stan. Vince “ricatta” Sugerman: se Stanley non torna a girare l’Europa e trova un nuovo giovane fuoriclasse straniero, non potrà diventare assistant coach. In un viaggio in Spagna, l’uomo s’imbatte casualmente in un talento locale, Bo Cruz (il vero giocatore NBA Juancho Hernangómez). Bo, scarponi da boscaiolo ai piedi al posto delle classiche e comode sneaker, gioca su scalcinati playground vincendo soldi, stoppando e schiacciando in faccia a qualsiasi avversario. Una volta rientrati negli USA, però, Bo non riesce a dimostrare il proprio valore (con le dovute proporzioni fa pensare a quando, nel calcio, nel 1936 i Celtic di Glasgow provarono a mettere gli scarpini al fuoriclasse Mohammed Salim di Calcutta che giocava abitualmente scalzo…). Sugerman allenerà Bo fino a far ritrovare fiducia al giocatore di strada. Hustle significa letteralmente “frenesia”, perché se non hai la passione, non puoi praticare professionalmente nessuno sport.

 

 

È un film piuttosto “classico” e molto americano. Si divide sostanzialmente in due parti alternate e cucite tra loro: scene di “famiglia” (Sugerman vive con la moglie Teresa – Queen Latifah – e la figlioletta Alex; Bo vive ancora con la madre e ha una bambina piccola) e scene di basket (soprattutto allenamenti e draft combine, ovvero le partite-vetrina per essere scelti dalla NBA). Se le parti famigliari hanno il sapore un po’ zuccheroso e qualche vena melodrammatica da soap opera USA, quelle sportive sono potenti, ritmatissime (anche grazie al montaggio e al soundtrack) e girate magnificamente. Jeremiah Zagar e Adam Sandler (anche co-produttore del film) conoscono evidentemente bene e amano questo sport. L’autore coglie il gesto atletico senza eccedere in mezzi “facili” o scappatoie come il ralenti, anzi registrando semplicemente – da molteplici angolazioni – la rapidità di una schiacchiata a canestro o un palleggio ubriacante, azioni talmente rapide che qualcosa verrà perso dallo spettatore… La macchina da presa può sbucare anche da un cerchione usato come peso. Zagar mette a fuoco la solitudine di un singolo giocatore nello sport di squadra. O meglio, la solitudine di un “fuoriclasse”, per di più straniero in terra straniera e con un passato marchiato da un arresto per aggressione. Bo “the Boa” è letteralmente solo contro tutti, ma in realtà soprattutto solo “contro se stesso” (fatica a vincere le proprie insicurezze mentali): «It’s you against you!» gli grida il coach. Il giocatore spagnolo non ha ancora una squadra e ogni partita è allestita con compagni improvvisati come in ogni vetrina NBA in cui in realtà nessuno gioca “con” te o “per” te. Tutti contro di te. Solo Sugerman crede davvero in Bo e, a parole, lo promuove così: «Come se Scottie Pippen e un lupo avessero avuto un figlio… e Allen Iverson fosse stato il babysitter!». 

 

 

Hustle non è un film per soli appassionati, ma è evidente che solo gli appassionati coglieranno ogni sfumatura e ogni riferimento al gioco (il nome del riottoso Ron Artest per esempio forse non lo conosce chi non mastica pallacanestro, anche se ha giocato perfino in Italia). Il film manifesta spesso un pudore non comune al cinema USA. Per esempio, il modo in cui viene ricordato Kobe è semplicemente attraverso un paio di scarpe. È anche una passerella di superstar NBA del passato (da Doctor J. ad Allen Iverson) e del presente (dall’autoironico Marjanovic a Luka Donic a molti 76ers come Tobias Harris, Tyrese Maxey e Seth Curry). L’avversario Kermit Wilts è interpretato dalla vera giovane stella Anthony Edwards che nella realtà ha una valutazione molto migliore del protagonista Juancho Hernangómez, attualmente in forza agli Utah Jazz (per un confronto sui tabellini dei due giocatori rimandiamo al sito proballers.com). Svela anche efficacemente ipocrisie e durezze del sistema NBA e dei media (la facilità con cui una giovane stella emergente può essere celebrata o scartata). Soundtrack notevole ed energico, con pezzi che vanno da The World Is Mine di Samm Henshaw a Runnin’ di David Dallas, passando per il classico The Seed 2.0 di The Roots e Cody ChesnuTT. C’è una bella sequenza nel documentario The Playbook – puntata dedicata a Doc Rivers – in cui Rivers, il vero allenatore dei 76ers (una comparsata in Hustle), osserva: «Un pessimo consiglio per un allenatore è dirgli: “Non affezionarti ai tuoi ragazzi!”. Io sostengo il contrario: “Affezionati!”. Forse si suggerisce di non farlo perché probabilmente ti spezzeranno il cuore, ti deluderanno, non ti saranno riconoscenti… Ok, alcuni lo fanno davvero e allora?! Il mio lavoro è quello di allenare quei ragazzi, renderli giocatori migliori, persone migliori, migliori compagni di squadra…». Anche Sugerman è chiaramente un grande coach per Bo e non ha paura ad affezionarsi al ragazzo. Come ogni vero allenatore, oltre che coach, è al contempo psicologo, padre, fratello, amico, (apparente) nemico. «Non possono ucciderti se sei già morto», dice Stan a Bo quando quest’ultimo ha perso ogni speranza, parafrasando Bob Dylan è il corrispettivo di: «When you got nothing you got nothing to lose». Hustle racconta senza orpelli e con amore la pallacanestro, la necessità di non mollare mai («Never back down!»), l’arte di allenare un fuoriclasse e la solitudine – almeno sul campo – di due numeri uno.